12 aprile 2015

Navigare per parallelo

Fino a pochi fa, navigare per mare rappresentava un una sfida non indifferente, e venivano richieste conoscenze particolari. Cerchiamo di spiegare perche’, anche con semplificazioni che, se rendono la discussione un po’ approssimativa, ci aiutano comunque a rappresentare il concetto di fondo.

Nel passato la navigazione non avveniva semplicemente “puntando” la prua verso la destinazione, vento permettendo. Le correnti e lo scarroccio della barca (lo “slittamento” della abrca sull’acqua) avrebbero portato ad errori e giocato brutte sorprese a chi avrebbe pensato di arrivarci in maniera semplice. Una parte di questi problemi poteva venir superata stimando, approssimativamente, la posizione e, di consequenza modificando la rotta. Ma la navigazione, in assenza di punti di riferimento, era appunto, stimata e nella realta’ era difficile arrivare direttamente a destinazione. Oggi, tutto risulta piu’ facile, dato che il GPS ci permette, grazie a satelliti che riescono ad individuare la nostra posizione con grande precisione, di avere sempre una posizione vera piuttsoto che stimata e, conoscendo il percorso fatto si puo’ sempre modificare la rotta per raggiungere il punto desiderato. Ma in mancanza del GPS le cose si complicano e la navigazione, ove possibile, avveniva per parallelo, ossia si navigava vesto la destinazione solo percorrendo una rotta est (o ovest),essendo questo il modo piu’ sicuro per arrivare.

Serviamoci di un esempio pratico cercando di immaginarci ai tempi dei fenici, greci o anche ai tempi della scoperta dell’America o degli inglesi di Horatio Nelson.

Immaginiamo di essere sulla costa occidentale dell’Inghilterra (punto P) e di dover veleggiare fino alle isole Azzorre (punto A), nell’atlantico settentrionale. Abbiamo a nostra disposizione alcuni strumenti utili alla navigazione come il compasso  e il log ed il sestante. Il GPS, che come detto, avrebbe rilevato la nostra posizione e segnatoil punto su una carta nautica, indicandoci immeditamante che rotta fare per arrivare al punto A di arrivo, non e’ stato ancora inventato, cosi’ come non abbiamo a bordo orologi precisi che ci permettano di sapere l’orario di alcuni punti di riferimento (per esempio l’ora in inghilterra o l’ora alle Azorre), e immaginiamo di non poter comunicare con il mondo (niente cellulari satellitari). Il modo che era allora piu’ difuso per navigare da P ad A era di navigare a sud fino a giungere al parallelo (i paralleli sono quelle line immaginarie che corrono, appunto, parallele all’equatore, che rappresenta anche il parallelo di riferimento) corrispondente alle Azzorre e, solo quando fossimo giunto a quel parallelo, la direzione si sarebbe modificata per raggiungere la meta percorrendo lo stesso parallelo. In figura una rappresentazione stilizata (freccie blu da P a A).


Questo perche?

Perche’ mentre e’ facile capire a che parallelo o si e’ (quanto a sud/nord si naviga), non e’ affatto facile capire a che meridiano si e’ (quanto ad est /ovest si e’ rispetto un riferimento). Ma procediamo per passi, perche’ il percorso non e’ solo lungo nella navigazione ma anche nella pratica che trova la soluzione al problema della navigazione. Gli gli antichi sapevano, per esempio, che la stella polare e’ la stella che e’ posizionata, grosso modo, proprio al polo nord[1]. Qundi se, navigando, si trova la stella polare sopra di noi, sopra la nostra testa, cio’ vuol dire che siamo al polo nord. Se, invece, trovassimo la stella polare ad un punto sull’orizzonte, vorrebbe dire che siamo dalle parti dell’equatore. Quindi, l’altezza della stella polare sul nostro orizzonte ci dice a che “grado nord” siamo, con grado 0 che rappresenta l’eqautore e 90 gradi che rapresentano il polo nord. Ad esempio, muovendoci dal sud Italia al nord Italia, l’angolo che la stella polare fa con l’orizzonte dovrebbe aumentare, passando da circa 38 gradi di Reggio Calabria a circa  44 di Genova.

 

Questo durante la notte. Tuttavia c’e’ anche un modo durante il giorno per scoprire la nostra latitudine:  la lunghezza della nostra ombra nel momento in cui questa e’ piu’ corta (a mezzogiorno) ci dice quanto lontani siamo dal percorso che il sole fa durante il giorno (e sappiamo che il supo percorso varia ma grosso modo copre una zona tra il tropico del cancro e il tropico del capricorno) . Per ogni dato giorno, si puo’ sapere dove corre il sole e quindi, se passiamo a mezzogiorno sotto la “scia” del sole avremo un’ombra che sara’ nulla, mentre piu’  a nord ci spostiamo piu’ l’ombra sara’ lunga. Sebbene questo metodo risulti, all’apparenza, molto piu’ approssimativativo, con l’uso del sestante e delle tavole nautiche e’ possibile avere in maniera piuttosto precisa l’informazione riguardo la nostra latitudine.

Insomma, anche se spiegato in maniera un po’ semplificata ed approssimativa, l’idea e’ che, navigando, e con gli strumenti addatti si puo’ trovare la nostra latitudine (punto  a nord /sud) in maniera abbastanza precisa.

 

La difficolta’ e’ capire quanto ad est o ad ovest ci si trova, ossia trovare la longitudine.
Per esempio, come faccio a sapere quanto ad est od ovest sono nell’oceano atlantico, se piu’ vicino alla costa della spagna o piu’ vicino alla costa degli Stati Uniti? Quante miglia ad est od ovst delle Azorre mi trovo?

Quallo che si sa e’ che il sole ci mette circa 24 ore a fare un giro attorno alla terra (questo come lo percepiamo noi, sappiamo bene che in realta’ e’ la terra che gira attorno al sole) e quindi, ogni ora, il sole “copre” circa 15 gradi dell’emisfero terrestre (360 gradi in 24 ore = 15 gradi all’ora). Dalla differenza di orario tra il punto in cui sono e un punto di riferimento posso intuire quanti gradi ad est o ovest sono rispetto il riferimento: quanto piu’ grande e’ lo spicchio (l’angolo e le le ore di differenza), tanto piu’ grande sara’ la distanza tra me e il punto di riferimento. Per esempio se , in mezzo al mare, so che sono le 12.00 (quando l’ombra e’, in assoluto, la piu’ corta) e sapessi, per esempio, che a new york sono le 10.00 di mattina allora dovrebbe risultare abbastanza evidente che ci sono due ore di differenza tra me e il punto di riferimento, e che sono allora a 30 gradi (di latitudine) di distanza dal mio punto di riferimento: a qual punto, con una cartina in mano, saprei segnare la longitudine, e mi basterebbe sapere anche la latitudine (vedi sopra) per sapere con precisione il mio punto sulla mappa. La sola cosa di cui ho bisongo e’ sapere sempre l’ora di un punto di riferimento (New York, nel nostro esempio) e dalla differenza di ora tra noi e New York posso capire quanto a est/ovest sono rispetto New York. Semplice no! Basta avere a bordo un orologio che segni l’ora come se fossimo al nostro riferimento (New York, o come nella realta, Greenwich). Il problema era pero’ proprio avere a bordo un orologio che fosse abbastanza preciso da dare sempre l’ora di riferimento. Putroppo nei tempi antichi non esistevano orologi precisi: le clessidre a poco servivano e anche i pendoli di epoca molto piu’ tarda, avevano ben poca utilita’ vista al loro scarsa precisione, soggetti come erano alle forze del mare. Il vero problema stava proprio qui, nel non avere la conoscenza del tempo in un punto di riferimento. Non sapendo trovare la longitudine, bisognava cercare di minimizzare tale errore e navigare quanto piu’ possibile per latitudine.

 

Ma torniamo al nostro problema iniziale di viaggiare dal punto P al punto A della mappa. Supponiamo che si parta da P e ci si indirizzi immediatamente verso A. Dopo diversi giorni di navigazione, potre sempre sapere quanto nord o su rispetto il punto A saro’ (latitudine) ma non sapro’ aunto a est od ovest del punto A saro’. E con il passare delle ore, dei giorni e delle settimane, il vento e la corrente devieranno il percorso della nostra rotta, cosi’ che sara’ impossibile percorrere essattamente il percorso tra P ed A e ci ritroveremo’, ad un certo punto, alla giusta latitudine ma, probabilmente o in A’ o in A’’ ossia o a est o a ovest del punto da raggiungere. Non sapendo se dover andare a “detra” o “sinistra” , rischerei di sbagliare strada e non arrivare piu’ in A.

E’ cosi’ che nel passato era molto piu’ facile, veloce e sicuro viaggiare per latitudine, ossia, si navigava a sud /nord fino ad incontrare la latitudine giusta e sapere, con certezza, che il punto da raggiungere si poteva trovare solo ad est od ovest, cosi’ da percorrere il parallelo e sapere di incontrare, prima o poi, la nostra meta.

Non era certo la strada piu’ breve. Ne’ si poteva garantire che la strada sarebbe stata la piu’ facile: immaginatevi di trovarvi venti proprio da est o da ovest proprio nel momento che dovreste nagivare per parallelo: una fortuna se vi trovaste con il vento in poppa, ma una sciagura se vi trovaste con il vento di prua. E si sa che, per la lege di Marphy, il vento viene sempre da prua.




[1] Non me ne abbiano gli astronomi, i marinai ne’ tutti quelli che riscontrano, nelle pagine qui sopra, delle approssimazioni, giustificate solo per presentare una soluzione semplificata ad un problema ben piu’ complesso, la cui risposta piu’ precisa puo’essere trovata nei testi specializzati

8 luglio 2012

Gioia

La vela e' un dono del Signore ai suoi figli più' belli.
Il giorno in cui ve ne ammalerete, ringraziatelo: pochi al mondo avranno momenti più' puliti e liberi.
Sarete dannati dalla fatica, spierete per mesi un mattino di vento, farete bagni fuori stagione e avrete le amni scorticate: ma un giorno di vela vi sembrera' un compenso anche troppo alto, perché' vi farà' toccare da un sentimento nuovo: la gioia.

4 agosto 2009

Il Fastnet


Il Fastnet e' un piccolo scoglio sulla costa sud occidentale dell'Irlanda. Il primo punto visibile per chi, dall'atlantico, si dirige verso la terrra dei Celti e si trova a sud. Su questi scogli hanno anche costruito (con fatiche disumane) un faro, uno dei tanti di aiuto ai marinai, uno di quelli che solo chi lavora con e va per mare apprezza davvero.
Ebbene, questo e' diventato per molti un simbolo, una sfida. Un po' come l'everest (con le dovute proporzioni): c'e' chi lo vede semplicemente come una montagna e chi invece vede in quelle rocce una sfida, un'simbolo per una prova di coraggio.
Ogni due anni ad Agosto prende il via una regata che, partendo dall'isola di Wight vicino a Southampton nel sud dell'Inghilterra, porta i concorrenti fino all'estremo ovest della costa inglese e poi su, a nord ovest fino a doppiare lo scoglio Fastnet per poi ripercorrere a ritroso il mare e finire a Plymouth. In tutto sono circa 600 miglia nautiche, circa 1000 chilometri di vela, senza sosta, senza scalo, senza pause. Per pochi e' una passeggiata, per molti una sfida. Io, da persona normale, rientro tra i molti che vedono questa regata come una sfida verso se stessi. Ci vuole una buona dose di preparazione, un po' di coraggio e un po' di follia per decidere di farla - almeno cosi' e' per me. Aggiungete ancora un'altra buona dose di follia per aver deciso di farla in doppio (ossia solo due persone a bordo).
Questa sfida, oltre a rievocare esperienze passate, sfide, successi e sconfitte quotidiane, mi riporta alla mente quelle persone che hanno condiviso in parte questo viaggio, o perche' direttamente interessate o perche' mi hanno fatto sognare in qualche modo o, ancora, perche' mi hanno insegnato qualcosa.
Chi, come mio padre, mi ha insegnato ad andare a vela. Mia madre che soffre in silenzio e fa fatica a dormire per il figlio che insegue un sogno. Il fratello con la sua presenza e gli amici che danno sostegno morale. Marco che mi ha avvicinato alla vela in UK e con cui ho avuto il piacere di preparare la precedente regata Fastnet. L'amico cervese scomparso che ha attraversato ben altri mari e ha superato ben altre sfide. Sua moglie Inbar che ha rinnovato in me il suo ricordo. La mia (ex) dolce meta' che, a suo tempo, mi ha dato (involontariamente) la spinta e la confidenza di fare dei passi importanti. Gli autori di tutti i libri di avventura, di storia navale e di mare.

Tutti quelli che, in modo diretto o indiretto, mi hanno aiutato o mi stanno aiutando. A loro dedico questo post.

29 giugno 2009

dedicato a capitan Bianchetti



Ancora non riesco a crederci.
Sono cresciuto sognando le imprese di mare, sfogliando le riviste di vela dalla fine, per cercare news dei miei personaggi preferiti. Raramente erano all’inizio delle riviste, piu’ facilemnte erano dei trafiletti su “bolina” o su “farevela” quando “farevela” racontava di vela spicciola. Divoravo i libri di Moitessier e sognavo di fare altrettanto.
Vivevo di sogni e di mare. Sognavo di fare delle uscite in solitario. Uscivo in barca con Simone quando lui faceva il militare a Ravenna e lui mi sembrava strano. Strano un bel po’. Mi hanno sempre attirato quelle persone con una volonta’ cosi’ forte da essere pronti a varcare le soglie dell’infinito per seguire i loro sogni. Ma lui era strano (solo poi ho capito che non era strano). Non sapevo bene dove fosse Plymouth, cosa fosse il Fastnet, le correnti erano solo un problema di teoria della navigazione. Simone poi parti’ per altri lidi, per avventure in giro per il mondo. Tutto mi sembrava cosi’ lontano e impossibile che continuavo a sognare. Un giorno la sera, per sfidare me stesso ho preso la barca dei genitori (a loro insaputa) sono uscito dalle dighe di Marina di Ravenna, mi sono diretto verso il mare ho dato fondo in 10 metri d’acqua e ho dormito li’. Per capire cosa vuol dire essere da soli in mare. Sono cresciuto cosi’.

E ora? Ora possiedo una barca. Non ho una casa mia, non ho una macchina, non ho neanche un mezzo di locomozione che mi appartiene ma ho una barca. Ed e’ ormeggiata a Cowes, sull’isola di Wight, nell’isola delle vele. Non solo, ma sono anche uscito in barca in doppio e anche in singolo! Ho partecipato ad una Fastnet in doppio, sono arrivato in Francia in solitaria. Ancora non riesco a crederci. E se tutto questo e’ vero, e lo e’, lo devo anche a Simone. Grazie a lui ho capito che i sogni non devono necessariamente rimanere sogni. Le imprese piu’ ardite, piu’ esagerate, piu’ “pazze” partono tutte da un punto semplice, dall’inizio. Per quanto questo inizio possa essere lontano dal traguardo tutto ha un inzio. Grazie a Simone ho voluto provare e ho iniziato anche io ad “andare” per mare.
Ogni volta che mi si stringe lo stomaco (tutte le volte in barca) e che sono in mare da solo Simone e’ nella mia mente.
Se solo fossi cresciuto prima. Se solo mi fossi fatto trascinare dall’entusiasmo di Simone.

Un altro anniversario. Il tempo passa ma i ricordi restano.

“A noi piacciono quei luoghi
Dove il vento e’ grigio e il cielo soffia forte,
nella moltitudine della solitudine
varchiamo le soglie dell’infinito”

Simone Bianchetti

28 maggio 2009

Immaginate




Immaginate che vi piaccia andare a vela ( ecchecavolO! ve la siete sempre cavata in mediterraneo!) e che decidiate di comperare una barca in Inghilterra. Iniziate a veleggiare ma sapete che il mare del nord e’ molto pericoloso quindi lo rispettate al pari delle cose che si temono. Immaginate poi di farvi prendere la mano e di iscrivervi alla prima regata in doppio (si, voi e un amico) con la vostra barca. Ora la cosa si complica. E’ la prima volta in assoluto che uscite con questo amico ed e’ la prima regata in doppio fatta con la vostra barca ed e’ anche la regata piu’ lunga mai fatta: 230 miglia nel bel mezzo del canale della manica. Chiaramente non avete velleita’ di successo, solo voglia di completare quella che per voi e’ forse la sfida piu’ grande mai affrontata finora: emulare tanti velisti esperti navigando in mezzo alle correnti, alle linee di traffico commerciale, in zone di mare per nulla conosciute e per tempi cosi’ lunghi che non avevate mai sperimentato prima. La fiducia vi guida, la coscienza della pericolosita’ della cosa sopprime l'entusiamo dell'evento.
Vi avvinate alla linea di partenza, vi girate intorno nell’attesa del via, circandati da circa 50 barche. Un bello spettacolo. Poi vi accorgete che la randa, la vela piu’ grande, ha un taglio in mezzo, bello visible. Uno sbrago, una ferita, uno strappo. La testardaggine, la stessa testardaggine che amici e parenti amano ricordare ad ogni occasione, vi permette pero’ di mantenere il sangue freddo, di partire, di ammainare la vela, di ripararala a mano e issarla nuovamente. Felici, vi concentrate nuovamente sulla regata. Immaginate poi che il vento e’ leggero, cosi’ leggero che la corrente vi trascina la barca in mezzo alle secche dei needles (uno dei punti piu’ pericolosi del solent) senza che possiate fare niente, sfiorando di 20 centimetri il fondale con la vostra deriva. Che culo!
Immaginate anche, durante la regata, che la vela continui a rompersi e dovete ripararla un’ altra volta (grazie alla fantasia e senso pratico dell’amico) e arrivate dopo 33 ore di navigazione (cioe’ dopo una notte compelta in mare). Aspettate, non esaltatevi. Non siete arrivati all’arrivo, semplicmeente la faro di Eddystone, che segnala la meta’ del percorso. Ora infatti dovete rifare a ritroso lo stesso percorso.
Immaginate che a quel punto che il motore, finora andato bene, ha deciso di non funzionare e vi lascia cosi’ senza cavalli. E senza possibilita’ di ricaricare le batterie. Poco male, dite. Spegnete tutti gli strumenti e continuate a navigare per altri 2 giorni, in venti leggeri leggeri, cosi’ leggeri che a volte dopo 4 ore non siete avanzati per nulla perche’ nel frattempo la corrente vi ha spinto indietro. In tutto dormite una media di 5 ore a notte, dormite vestiti di tutto punto, al freddo e non vi lavate, ne’ potete comunicare con I vostri cari. Intanto la linea di arrivo si avvicina, siete a 10 / 15 miglia, ma inizia a fare buio, non conoscete la zona dell’arrivo. Non vedete l'ora di finire questa fatica immane. Dalla carta nautica notate che la zona di arrivo e’ piena di fondali bassi, segnalamenti luminosi e che la corrente potrebbe giocarvi brutti scherzi. In quel preciso istante, mentre pensate che forse questo e’ un po’ troppo per voi, stanchi e poco reattivi, inizia ad aumentare il vento in maniera scontante. Non e’ possible! Dopo circa 66 ore e la terza notte fuori non posso fermarmi causa il vento pazzerello che cosi' tanto mi ha fatto soffrire in questi 3 gironi! Devo arrivare. Con mille patemi e ansie riuscite a districarvi tra le difficolta’ e tra le acque basse e riuscite a tagliare la linea del traguardo ma notate che non c’e’ la barca giuria e che la luce gialla lampeggiante che voi pensavate fosse la barca giuria e’ in realta’ un faro che sta a segnalarvi la terra. Immaginate a quel punto che capiate che state esagerando con voi stessi e che forse non e’ il caso di continuare a prendere rischi e navigare in quelle acque pericolose, basse (5 metri di fondale), con corrente, vento rafficato che rende la barca poco governable, il tuto al buio. Decidete allora (saggiamente?) di dare ancora e fermarvi per il resto della notte in rada.
Immaginate che, quando decidete di dare ancora qualcosa va storto (legge di marphy?) e che la catena e l’ancora girano sotto la deriva impediscono alla barca di mettersi prua al vento. Cosa piu’ unica che rara la barca decide invece di mettersi con la poppa al vento, esponendo cosi’ il timone alle onde. E infatti per tutta la notte lo scafo batte contro le onde, tanto che temete che il timone possa rompersi.
Immaginate che, sfiniti dalla notte in bianco passata a verificare che l’ancora abbia tenuto e a pregare chi di dovere di essere clemente, decidiate che non c’e’ piu’ modo di rientrare in porto, ne’ di uscire da questa situazione di empasse visto che non avete il motore. Allora chiamate aiuto.
Imamginate tutto questo.



Tornereste in barca?

28 aprile 2009

Viaggiare

Viaggiamo, inizialmente, per perderci.
E viaggiamo, poi, per ritrovarci.
Viaggiamo per aprirci il cuore e gli occhi,
e per imparare più cose sul mondo
di quante possano accoglierne i nostri giornali.
E viaggiamo per portare quel poco di cui siamo capaci,
nella nostra ignoranza e sapienza,
in varie parti del globo,
le cui ricchezze sono variamente disperse.
E viaggiamo, in sostanza,
per tornare a essere giovani e sciocchi,
per rallentare il tempo ed esserne catturati,
e per innamoraci ancora una volta

(P. Iyer)

3 marzo 2009

The path

Do not go where the path may lead. Go instead where there is no path and leave a trail…

17 febbraio 2009

Il viaggio


Viagiar descanta, ma chi parte mona, torna mona
Hugo Pratt



4 febbraio 2009

Tibetani a Londra

Nel 1950 una delegazione di monaci e funzionari che non erano mai usciti dal Tibet venne inviata a Londra per discutere cosa l’Inghilterra poteva fare per il loro paese. Venivano da un mondo povero, primitivo, ma bellissimo. Erano abiutati a grandi spazi vuoti, a una natura coloratissima e loro stessi erano colorati nelle loro tuniche, nei loro cappotti e berretti. A Londra furono ricevuti con grande cortesia e poratati in giro a vedere la citta’. Un giorno, con i loro accompagnatori, i tibetani si ritrovarono nella metropolitana. Erano esterefatti: tuta quella gente sotto terra! Uomini vestiti di nero, con la bombetta int esta, leggevano il gironale sulle scale mobili, la folla si accalcava nei corridoi correndo per salire sui treni in partenza; nessuno paralva a nessuno, nessuno sorrideva! Il capo dei tibetani si rivolse, pieno di compassione, all’accompagnatore inglese e gli chiese: “Cosa possiamo fare per voi?”

28 settembre 2008

Alitalia


Non ho intenzione di essere polemico con nessuna delle parti in gioco ma vorrei poter esprimere il mio pensiero su una situazione delicata coome quella dell'Alitalia, cogliere lo spunto per una riflessione generale e vorrei che qualcuno mi aiutasse a capire. Da una parte l'Alitalia, azienda pubblica, non ha la capacita' di stare sul mercato e invece di produrre reddito a beneficio dell'Italia (che tanto avrebbe bisogno di utili), produce perdite per circa 300 milioni di Euro l'anno (circa 1 milione di Euro al giorno, pare incredibile). In una situazione del genere qualsiasi azienda privata o fallirebbe o verrebbe ristrutturata. In Italia invece si e' deciso che il problema Alitalia, azienda che gia' da anni soffre la competizione internazione e che gia' nel passato aveva piu' volte cercato di ristrutturarsi e "alleggerirsi" dei debiti riducendo i costi del personale scontrandosi con i sindacati, deve essere risolto dai politici. Si e' deciso che Alitalia non poteva essere venduta a Air France (siamo Italiani, per favore!), senza considerare le leggi odierne di mercato: compagnie americane sono comperate da brasiali, l' azienda nucleare inglese di dominio pubblico e' stata comperata dai francesi (vi sareste immaginati? aziende inglesi che vengono vendute ai francesi), e altre situazioni per per brevita' trascuro. Gia' su questa scelta mi trovo in disaccordo. La globalizzazione e' anche questo. E' poter comperare un cellulare Samsung o un portatile Toshiba perche' gli Olivetti non ci piacciono. E' poter volare Air France perche' i voli Alitalia non ci piacciono - e' comperare un veicolo honda perche' la fiat non aggrada. Ma sorvoliamo (ehm..) questo punto, il punto sulla necessita di avere una compagnia di bandiera (come se gli italiani fossero legati alla propria bandiera).
Tutte le possibili ristrutturazioni sono state violentemente criticate dai sindacati negli anni passati. Ora, senza voler entrare nel merito della cose (e considerando che i sindatacati sono, a mio parere una delle grande conquiste della societa' moderna) ma perche' murarsi dietro privilegi di una piccola classe a discapito di tutti? A confronto tutte le altre compagni aeree hanno in proporzione meno addetti (piloti, hostess, forza lavoro a terra) e sono meno costosi (e, per quanto ne so, i voli sono frequentati da piu' passeggeri, rendendo ciascun volo piu' economicamente "efficiente"). I bilanci delle altre compagnie aeree lo confermano. Perche' invece i sindacti decidono di arroccarsi su posizioni oggi palesemente ridicole? I nostri piloti sono cari, il nostro personale e' troppo numeroso. Non sono io a dirlo, sono i giornali. Ma no, meglio difendere con i denti i lavoratori e mandare in crisi la compagnia. Come troppo spesso accade in Italia i diritti dei singoli (o di categorie) ledono la collettivita'. E i sindacati, nella loro miopia, non vedono oltre il loro naso (lottano per conservare i benefit dei vecchi senza pensare ai nuovi giovani che potrebebro entrare in azienda), o non vogliono vedere. Ma sorvoliamo anche su questo.
Poi il nostro Governo si e' presa la briga di risolvere la questione. La bad company sara' a carico dello stato, dei contribuenti che si ritroveranno a pagare (a proposito, che fine ha fatto il prestito fatto, violando la legge sulla concorrenza, a tassi di favore? Chi paghera' per questo?) per questo scorporo. La good company verra' invece venduta (si dice) per 400mn di Euro. Dicono che valga 1 miliardo di Euro o piu' (e guarda caso sara' di nuovo l'Italia a soffrire del mancato profitto). Ma se anche fosse venduta al valore di mercato (cosa che mi pare troppo strana per essere vero... che interesse avrebbe Cai di comperare qualcosa a mercato? E non ditemi che lo farebbe per "salvare" la compagnia italiana. Spirito di sacrificio, vero? Ma va!), l'idea oggi e' di rivendere la minoranza e forse la maggioranza a Lufthanssa o Air France. Ma allora cosa si e' raggiunto? Non sara' la maggioranza ma la compagnia straniera dettera' comunque le condizioni. E saremo comunque in mano straniera. Ma il tutto non era nato per evitare di cadere in mani straniere? Non capisco.
Il fallimento sarebbe forse stata la cosa migliore. Con il fallimento sarebbero venute fuori le responsabilita' (anche se solo formali e anche se nessuno avresse poi realmente pagato il debito morale del fallimento) e i debiti sarebbero stati pagati e si sarebbe chiusa la situazione imbarazzante. Nessuno avrebbe cercato di guadagnare sui soldi dei contribuenti.

Penso ai soldi spesi negli ultimi anni per tenere a galla una bagnarola piena di falle, ai soldi spesi per rattoppare bilanci imbarazzanti. Penso ai privilegi dei piloti, al costo delle hostess, ai voti politici presi nel passato grazie a politiche di assunzione che poco hanno a che vedere con la concorrenza di mercato. Penso alla miopia dei sindacati. E penso che forse sarebbe stato meglio riabilitare gli esuberi in altri lavori piuttosto che spedere i soldi dei contibuenti. Non nego la necessita' di interventi pubblici nella gestione della societa'. Purtroppo ogni volta che in Italia i politici intervengono combinano spesso piu' danni che benefici. Come mi ha detto un amico "Non si riesce a distinguere la gestione della res publica dalla politica."

26 luglio 2008

I mass media e la cultura alternativa


Lo avete sicuramente notato: mi piacciono le citazioni. Possono essere semplici frasi che cercano di illustrare una verita' o semplici paragrafi che descrivono situazioni. Questa volta, pero', non mi limitero'a citare un passo estratto da un testo: mi permetto anche di consigliarvi una lettura. Il libro di Claudio Giunta, "L'assedio del presente", da cui la citazione e' tratta, rappresenta una attenta e critica visione della cultura di oggi. In particolare l'autore spiega il suo puntoi di vista sulla rivoluzione culturale in corso, descrivendo i mass media e la cultura alternativa; delinea anche il fallimento degli organi che avrebbero dovuto difendere una educazione umanistica (famiglia, chiesa, universita', scuola). Il libro e'una ottima lente di ingrandimento sulla realta'culturale di oggi - indipendentemente dalle opinioni che ognuno si porta dietro - illustrandone i difetti. Qui sotto vi presento un breve paragrafo sulla imposizione delle norme sociali, ma il libro tutto merita una attenta lettura.

".. La terza funzione (dei media, ndr) e' l'imposizione o la riaffermazione delle norme sociali. Lodando cio' che e' normale e censurando cio' che non lo e', i media sono una scuola di conformismo. Identificano il buono e il desiderabile con cio' che la maggioranza dei cittadini perbene considera buono e desiderabile, e puniscono, rendendole pubbliche, le deviazioni dal senso comune. Cosi', in modo indiretto ma efficace, impediscono lo "sviluppo di opinioni genuinamente critiche".[...] Come strumenti della conservazione, votati alla difessa dello stato di cose esistente, i media potevano essere buoni alleati dell'educazione tradizionale e dei valori o degli pseudo-valori su cui questa si fondava: religione, rispetto per l'autorita', famiglia, etica del sacrificio. Oggi questa difesa dello stato di cose esistente non e' piu' necessaria. Lo era quando esisteva, almeno in teoria, un'alternativa possibile e temuta, un altro possibile ordine sociale. Ora che lo stato delle cose e' uno solo, che nessuna alternativa sembra anche lontanamente realizzabile e che le leve del potere sono saldamente in mano non della politica ma dei Trust industriali e della finanza - ora l'ordine si e' invertito. Se un tempo i media controllati dal potere politico servivano a rassicuare tutti che tutto andava nel verso giusto, che un'autorita' buona e saggia vegliava sulle nostre vite e che tutti i problemi si potevano risolvere attraverso la ragionevole applicazione delle ragionevoli virtu' borghesi, oggi i media controllati dai trusts e dalla pubblicita' hanno un interesse opposto. Un utente sicuro di se' e del suo mondo e' l'ultima cosa che la macchina del consumo possa augurarsi. Al contrario, essa deve mantenere chi guarda in un continuo stato di ansia e di insoddisfazione su di se': cu cio' che egli e', fa, possiede. Percio', mentre quello che i media di un tempo insegnavano era il puro conformismo, oggi l'idea-guida, imposta dall'indutria del superfluo che materialmente paga e possiede i media, e' quella di distinguersi, di non essere come gli altri: un'idea-guida a cui corrisponde una complementare paura-guida sulla quale la pubblicita' costruisce i suoi imperi, la paura del declassamento, di diventare appunto normali come tutti gli altri. E non servono analisi socio-economiche particolarmente sottili per vedere una cosa che affiora di continuo nel linguaggio, nell'abuso tragicomico di parole come esclusivo o prestigioso riferite a esperienze che - per la logica stessa del mezzo che le pubblicizza, un mezzo di massa - non possono essere ne' esclusive ne' prestigiose"

6 luglio 2008

come succhiare un chiodo

" perche' sa, se io faccio questo mestiere di girare per tutti i cantieri, le fabbriche e i porti del mondo, non e' mica per caso, e' perche' ho voluto. Tuti i ragazzi si sognano di andre nella giungla o nei deserti o in Malesia, e me lo sono sognato anch'io; solo che a me i sogni mi piace farli venire veri, se no rimangono come una malattia che uno se la porta appresso tutta la vita, o come la farlecca di un'operazione, che tutte le volte che viene umido torna a fare male. [...] Adesso poi ci ho fatto talmente l'abitudine che se dovessi mettermi tranquillo verrei malato: per conto mio il mondo e' bello perche' e' vario.[...] Se uno sta a casa sua magari e'tranquillo, ma e' come suchiare un chiodo. Il mondo e' bello perche' e' vario."
Primo Levi, "La chiave a stella"

24 maggio 2008

La tempesta


Il guaio della tempesta è che non conta come è, ma cosa può diventare. Il problema, lo scopri con stupore, non esiste quando sei già in alto mare: se proprio non è una tempesta perfetta, prosegui: con più impegno, attenzione, ma quasi mai con paura. Di più: mentre un mare un pò mosso sembra più mosso a chi ci naviga che a chi lo vede da terra, per la tempesta è il contrario: appare peggiore da terra che a chi la affronta.

20 aprile 2008

L'unico amico e' il suo piu' spietato nemico!


"Le cose piu' meravigliose sono sempre le piu' inesprimibili, le memorie piu' profonde non producono epitaffi; questo capitolo lungo sei pollici e' la tomba senza pietà di Bulkington. Dico soltanto che accadeva di lui come di una nave squassata dalla tempesta, la quale miseramente avanzi lungo la costa, sottovento. Il porto le darebbe volentieri soccorso; il porto e' pietoso, nel porto c'è sicurezza, comodità, focolare, cibo, coperte calde, amici e tutte le cose care alla nostra vita mortale. Ma in quella bufera il porto, la terra, sono per la nave il rischio piu' temibile. Essa deve fuggire ogni ospitalità; toccare terra una volta, anche soltanto sfiorando la chiglia, significherebbe far rabbrividire la nave da cima a fondo. Con tutta la sua forza essa apre ogni vela per allontanarsi da terra e, cosi' facendo, lotta contro i venti che volentieri la spingerebbero a riva e si getta di nuovo alla ricerca dei mari sconvolti, purchè lontani da terra; per cercare salvezza si precipita disperatamente nel pericolo: l'unico amico è il suo più spietato nemico" Moby Dick, cap XXIII

7 aprile 2008

I marinai


Nel silenzio, punteggiato dallo scricchiolio dei container, appena mossi dall'ondeggiare della nave, mi pareva di capire finalmente i marinai: anche loro erano degli evasi; anche loro scappavano dal mondo di “terra”, dagli impegni sociali, dal peso delle relazioni, dal vivere settimane e mesi in quell’universo costante e continuamente mutevole di acqua e di cielo, per godere della semplice sagoma di un’isola o di un faro che occhieggia nell’oscurità. Bella gente i marinai! Ma anche loro destinati a sparire. Già non si chiamano più così: “marinai”, “mozzi” e “nostromi” sono stati aboliti e al loro posto, per ragioni sindacali, è subentrata una nuova categoria: quella dei ”comuni polivalenti”, gli uomini tuttofare. Succede lo stesso con la sapienza marinara, accumulata attraverso i secoli: il mondo moderno non sa più cosa farsene. Gli strumenti ormai fanno da sé. Un tempo, un marinaio doveva aguzzare lo sguardo per riconoscere, in un certo increspare delle onde, la presenza di un banco di pesci, per vedere da lontano la navigabilità di una rada, o per accorgersi di un fondale basso in cui la nave poteva incagliarsi. Ora tutto questo lavoro e’ affidato ai sonar e ai radar, che ogni anno diventano più precisi. Eppure, quanta conoscenza viene persa! Quante antenne naturali cadono dalla testa dell’uomo per essere rimpiazzate da antenne elettroniche! […] Quella di perdersi nel tempo è una cura semplice per i mali dell’anima, ma nessuno sembra permettersi facilmente. Per anni avevo sognato nei momenti di depressione, di mettere idealmente sulla porta della mia stanza un cartello che dicesse “Sono fuori a pranzo” e poi di far durare quell’assenza giorni o settimane. Finalmente c’ero riuscito. Sulla nave ero costantemente “fuori a pranzo” e avevo tutto il tempo di osservare uno stormo di rondini che dal Mediterraneo era venuto a bordo e che ogni tanto usciva per volteggiare sul mare e tornare a nascondersi fra i container. Avevo il tempo di pensare al tempo, a come il presente spesso mi annoia e debbo immaginarlo nel modo in cui lo ricorderò per poterne godere sul momento. Avevo il tempo di farmi commuovere dall’improvvisa comparsa – chi sa da dove! – di un solitario uccellino grigio con il petto giallo e le ali a strisce nere che s’era posato su una gru vicinissima a me e non smetteva di guardarmi.
“Un indovino mi disse” di Tiziano Terzani

1 aprile 2008

Viaggiare


Quando smetterai di sognare,
non parlarmi.
Quando smetterai di voler bene,
non pensarmi.
Quando la terra del fuego non
scalderà più il tuo cuore,
non guardarmi.
Ma quando tutto questo non si
avverrà, cercami
e in qualche modo
viaggieremo insieme.

18 marzo 2008

Laos



Qualcuno lo ha definito un paese romantico. Io non so bene se il Laos si possa definire romantico. Di certo pero’ mette tenerezza. Non che ci abbia vissuto, ne’ che ci abbia passato molto tempo, ma pochi giorni dopo la caotica Thailandia e prima del vivace Vietnam sono bastati per assaporare questo paese. Dal primo istante dopo il confine, passato il ponte di Nong –Khai (unico ponte in Laos, vedi post) ci si accorge di essere in una terra che lascia basiti. Dal confine non ci sono autobus di linea, ne’ treni. Niente viaggi organizzati. Solo poveri taxisti che con i loro tuk-tuk cercano di arrivare a sera. Gli autobus? Guardatevi i film italiani degli anni ’30 e se vedete degli autobus, molto probabilemnte questi sono piu’ simili agli autobus laotiani che gli autobus odierni. Scordatevi l’aria condizionata, i finistrini chiusi, i sedili puliti. L’aria e’ polverosa, come lo solo le principali strade (no cemento, solo terra battuta), i sedili di plastica e chi arriva tardi si siede sulle seggioline di plastica sistemate sul corridoio per l'occasione. Altro che cinture, legge sulla sicurezza, 626 o menate del genere. Dimenticavo. Al sotto i sedili, in mezzo, ovunque, grossi pacchi di merce (patate? Riso?) riempiono buchi e spazi, tanto che il viaggio si trasforma in un odissea: scomodi, seduti pericolosamente su sedili pericolanti, correndo su strade sterrate, ricoperti dalla polvere rossa sollevate dai mezzi che precedono o che ci vengono incontro, fatica a respirare per la polvere, il caldo e i sobbalzi del terreno. I tempi di percorrenza? Una media dei 50 KM all’ora quando va bene. Partenze ritardate di ore, senza apparente giustificazione e senza che nessuno si irriti.
La vita in Laos scorre lenta. Come poteva essere in Italia diversi decenni fa’. Non si sa quando si parte, non si sa quando si arriva a destinazione. Non c’e’ fretta, c’e’ sempre tempo per un sorriso, per uno sguardo alla rigogliosa vegetazione. Non c’e’ l’ansia di arrivare. La vita scorre lenta, al ritmo del fruscio delle palme. Scorre felice. Si vive con quello che la natura produce. Pollo, riso, bambu’, banane sono su tutte le bancarelle, su tutti i piatti. I bambini giocano allegramente con foglie di piante, vivono in case fatte di bambu’, pavimenti fatti di terra rossa, cucine che guarderemmo con ribrezzo e con la TV. Probabilmente la popolazione non ha scelto questa vita, probabilmente e’ stata costretta dal regime ad adattarsi. Forse loro, i laotiani ci vedono come i ricchi, piu’ agiati. E lo siamo. Ma siamo anche piu’ felici? Nei piccoli paesini (per noi, metropoli per i laotiani) mancano in molti punti le luci sulle strade, mancano i marciapiedi, mancano i semafori. Insomma, mancano molte delle cose che oggi consideriamo fondamentali. La cosa curiosa o tragica, dipende dai casi, e’ che il Laos non vuole cambiare. Sara’ per via del regime ma il Laos aberra l’ammodernamento, la tecnologia, il progresso. Forse e’ davvero il paese dei sognatori. Il paese di chi sogna un mondo libero da legami, un mondo essenziale. A chiederlo anche loro vorrebbero la tecnologia, benessere, i soldi per i viaggi, per ingrassare, per vivere meglio. Il dio denaro sarebbe il loro Dio se solo potessero scegliere. Ma per fortuna o putroppo non possono. Siamo sicuri, pero', che sia un male?

12 marzo 2008

Le rane di Moitessier



Chiesero a Moitessier perche' avesse preso il largo. "In Vietnam", rispose, "per cucinare le rane, le mettiamo in una pentola d'acqua fredda, a fuoco lentissimo. Quando la rana s'accorge che l'acqua bolle, e' già lessa. Io saltai fuori prima".

Devo dire altro?

6 marzo 2008

Rio de Janeiro



C'e' un solo modo per dirlo: Rio e' una città meravigliosa. Si può discutere su molte cose, ma non sul fatto che Rio non sia meravigliosa. E vi spiego perché la ritengo tale, nonostante le facili ironie.

Il posto. Incastonata tra 3 tra le più belle spiagge (Copacabana, Ipanema, Leblon) del sudamerica, con verdi e ripide colline alle spalle, un lago poco distante e un verdissimo ed enorme parco, Rio si presta ad essere eletta una delle città più belle del mondo. Se a questo aggiungete che si trova poco più a sud del tropico, dove la temperatura media dell'anno e' sui 25 gradi e dove raramente si scende sotto i 15 gradi in inverno... beh... difficile trovare un posto più adatto.

I carioca. Che tu sia donna o uomo non importa. Se sei carioca sei anche abbronzatissimo/a, ti piace sederti sulla sedia guardando il mare o giacere sul telo sulla spiaggia, gustarti una bibita ghiacciata o dei gamberi freschi. Ti piace mettere in mostra le parti belle del corpo, sorridere allo sguardo dei curiosi violatori di privacy, ti piace giocare a calcio sulla spiaggia e goderti la vita. Ti piace salutare il sole che tramonta all'orizzonte con un lungo applauso, insieme a tutti gli altri. Una Rio senza i carioca sarebbe come un pesce vivo fuori dall'acqua. Non può resistere a lungo.

La vita. Il sole sorge presto, tramonta quasi sempre alla solita ora. Durante tutto l'anno si presenta più o meno caldo, portando impiegati, lavoratori, turisti a gustarsi le ore del pranzo, del dopolavoro o del giorno libero in spiaggia, passeggiando lungo il bagnasciuga per il lungomare. In poche città ho visto la gente libera dal lavoro precipitarsi in spiaggia come a Rio. Il sole ha modificato le abitudini, tanto che i carioca sorridono mentre passeggiano, camminano i shorts e maglietta felici della giornata di sole. Girando in città si può gustare uno dei molteplici ed esotici succhi o spremute di frutta, ci si può riempire di cibi veloci, mangiare la comida da chilo o gustarsi dell'ottima carne (mai mangiato carne migliore). Sapere che il mohito, il corcovado, copacabana, il pan di zucchero saranno ancora li' domani mattina insieme al sole non può che far sorgere un sorriso a chi vive, visita o passa per Rio. Difficile trovare di meglio.

Certo. Ci sono anche i ma. I ma sono i rischi. Favelas e delinquenza riempono i titoli delle testate giornalistiche e delle TV. Ma con un minimo di attenzione questi rischi possono venire minimizzati. Basta conoscere le regole del gioco per riuscire a passare indenni dai rischi. Non credete troppo alle guide, agli allarmanti avvertimenti degli amici.

Rio è una città meravigliosa.

26 febbraio 2008

... e gli orologi (parte 2)


Harrison John "longitudine" nacque nel 1693 nello Yorkshire orignariamente come falegname e, come tale, costrui' orologi. Difatti costrui’ sia diversi orologi a pendolo che un orologio di una torre: quest'ultimo lo fece utilizzando legno lubrificante e duro (era il 1722), sperimentando soluzioni alternative. I migliori orologi del tempo sgarravano di circa 1 minuto al giorno, quelli di John H. di un secondo al mese! Saputo del premio del Longitude Act, Harrison si butto’ per 5 anni sull’orologio, chiamato poi, H1 (di 34 chili) completato nel 1735. Finito, lo presento' a Graham suo paladino e mecenate. Nella riunione per il premio, Harrison, davanti ad una commissione di professori e astronomi, non parlo’ dei pregi dell’H1, bensi' illustro' i suoi difetti e le possibili migliorie che avrebbe potuto raggiungere se avesse avuto tempo (e soldi) per costruirne un altro. Stano a dirsi, ma non vinse il premio. Ricevette pero' un anticipo per pagare i debiti e per continuare a lavorare sulle sue idee di come migliorare gli orologi. Nel 1737 creo' H2 ma non gli piaceva. Per i sucessivi 20 anni si dedico' all'H3. Una caratteristica fondamentale di quest’ultimo e' la presenza di un congegno di regolazione della temperatura, che tutti gli altri orologi prima del suo non avevano. L' H3 era alto circa 66 cm e largo 33. Nel 1753, ricevette un cronometro tascabile la cui misura era pero' sballata. Osservandolo e prendedno sputo da questo, nel 1759 Harrison se ne usci con H4 che assomigliava molto a quest'ultimo (un po’ piu’ grande delle nostre “cipolle” da tasca). Quest'ultimo rappresenta il passo decisivo verso gli orologi come li intendiamo oggi. Piccoli congegni che misurano il tempo con relativa precisione. Prima di Harrison c'erano i pendoli e nient'altro. Il premio non fu mai assegnato formalemnte, nonostante oggi la longitudine viene calcolata come differenza di tempo, quindi grazie alle invenzioni Harrison. Tutti i suoi orologi sono visibili all’osservatorio astronomico di Greenwich, dove riposano insieme agli strumenti utilizzati dai vari astronomi reali per la comprensione dell’universo celeste. Quindi, nonostante gran parte degli scienziati del tempo si opponessero all'idea che fosse possibile calcolare la longitudine come differenza di tempo (vedi articolo), e' proprio grazie agli orologi (e alla loro precisione) che oggi si riesce a navigare in sicurezza sapendo sempre latitudine e longitudine del posto in cui si naviga.

La longitudine.... (parte 1)


Era il 1707. Era una nebbiosa giornata di fine Ottobre. Piu’ o meno al largo delle isole Scilly, un gruppetto di pericolose isole messe li da chissachi’ a circa 20 miglia Ovest dalla punta piu’ a Ovest (Land’s End) dell’Inghilterra. Questo punto sulla mappa e’ stato il motivo principale e la svolta per la soluzione del problema della Longitudine. A quel tempo infatti non era chiaro a nessuno come si potesse calcolare da latitudine (est – ovest) in mare. Era relativamente semplice conoscere quanto a nord o a sud si stesse navigando rispetto un punto (dall’altezza del sole o dall’altezza della stella polare rispetto l’orizzonte) ma ben piu’ difficile era capire quanto a Ovest o Est si fosse una volta che si fosse perso il contatto con la costa. In quel 23 Ottobre, la marina britannica perse circa 2000 uomini e tre navi (e ancora oggi rappresenta la piu’ grande tragedia della marina di Sua Maestà) a causa dell’errore nel computare la longitudine. Una nave sola si salvo’ dal disastro. A seguito di questo disastro nel 1714 venne emanato una comunicazione con la quale si dava un premio a chi avesse risolto il problema della longitudine.
Oggi la questione pare superflua. I GPS dicono, ogni istante, in ogni punto della terra dove si e’. Anche senza il GPS, un cronometro e un sestante bastano per calcolate le rette di altezza con una certa precisione e capire, quindi, dove ci si trova in mezzo al mare.
Ma un tempo gli unici strumenti a disposizione erano una bussola (e la deviazione magnetica era si' conosciuta, ma tuttavia lontana dall'essere calcolata con la precisione necessaria), delle carte nautiche non propriamente precise (Le Scilly erano disegnate diverse miglia piu’ a sud di dove sono relamente), uno scandaglio a mano e un sestante (utile per il calcolo della latitudine).
Diverse teorie erano sorte riguardo a come risolvere questo problema. Gli astologi supportavano l’idea di trovare il punto nave tramite la conoscenza dellla posizione della luna o della posizione dei pianeti Medicei attorno a Giove. In pochi pensavano che la soluzione potesse essere trovata nella meccanica e per la precisone nella costruizone di un orologio. Ma dal 1714, quando il governo inglese rese noto che avrebbe dato un premio di 2000 sterline (del 1800esimo secolo!) a chi avesse trovato una soluzione al problema della longitudine con una approssimazione di ½ grado (1 grado all’equatore = 60 miglia), in diversi tentarono di trovare una soluzione, sia per la gloria che per il denaro. L’osservatorio astronomico di Greenwich era stato costruito e gia’ gli astonomi Hamsteed e Hally lavoravano sulla definizione delle carte stellari, tramite le quali speravano, un giorno, di trovare la longitudine.
Due infatti erano le scuole di pensiero: chi ci riuscisse attraverso l’astronomia e chi attraverso il calcolo del tempo (cronometro). In particolare Harrison John “longitudine” fu quello che piu’ di ogni altro contribui’ alla soluzione del problema.

21 gennaio 2008

Il successo

Failure’s hard, but success is far more dangerous.
If you’re successful at the wrong thing, the mix of praise and money and opportunity can lock you in forever.

13 dicembre 2007

L´abitudine

Strana cosa l´abitudine. Si rifanno gli stessi percorsi, le stesse azioni, ci si incotra con le persone che gia´conosciamo (e di cui conosciamo tutto), si frequentano gli stessi posti. Preferiamo il noto all´ignoto. E´comprensibile. Gia´tutti i casini della vita rendono complicate le giornate semplici. Immaginatevi poi dover fare qualcosa di nuovo, dover pensare al come, al dove e al quando. E se ci fossero imprevisti? e se poi il nuovo posto non mi piacesse? e se la strada nuova poi e´bloccata? Troppo stress, meglio lasciar perdere. E´normale e, diciamo, comprensibile.
Sono stato per un po´di tempo in situazioni dove non avevo modo di abituarmi. Ogni giorno in viaggio verso nuove mete, ogni giorno in posti diversi, situazioni nuove, cibi sconosciuti. All´inizio, oltre all´interesse per il nuovo, c´era anche preoccupazione per l´ignoto. Il non sapere dove dormire, dove andare, che mezzo prendere mi mette a disagio. Il non sapere preoccupa. Mette ansia e tensione.
Dopo piu´di 2 mesi in giro mi sono invece accorto di una cosa. Anche dell´ignoto ci si fa l´abitudine. Vivere alla giornata e´ormai diventata la normalita´. Sono poche le situazioni che mi sorpendono in questo viaggio.
Il bus delle 6 arriva alle 8 e perdo la coincidenza? Gia´visto.
Arrivo in un villaggio sconosciuto alle 6 di sera (tutto buio), senza gente che parli inglese o italiano e non ho un posto dove dormire? Arrivare da un ambulante per ordinare cibo e vedere, sulla brace pollo e topi? Avere coppie di poliziotti ogni 50 metri a causa di furti e rapine di abitanti dalle favelas? Prendere un taxi dove il taxista non ha capito dove devi andare e ti porta dalla parte opposta? Entrare in una posto simile ad una balera con gente di favelas, ed essere l´unico "ricco" e turista? Tutto gia´visto.
E la cosa buffa e´che e proprio l´imprevisto che mi attira. La quotidianita´mi annoia, ora. Mi annoio cosi´tanto che ormai devo cambiare citta´ogni giorno. Quando si e´a casa guai a fare cose nuove. Qui guai a rifare le stesse cose due volte.
Spero di rimettermi in sesto, che cosi´non va bene.
L´abitudine non e´poi cosi´male. O sono forse solo i deliri di un individuo che spera, prima o poi, di dormire nello stesso letto per piu´di 5 giorni? E´troppo chiedere un piatto di spaghetti aglio olio e peperoncino per 3 giorni di fila? E´ possibile disabituarsi all´abitudine?

1 dicembre 2007

Felicita'


Ma la felicita’ esiste? A chiederlo ai filosofi parrebbe di si. La si puo’ osservare, sebbene non sia subitamente percepita, quasi ogni giorno: E’ negli occhi dei bambini che giocano, o in quelli degli sposi novizi. O anche in quelli di amici che si reincontrano dopo lungo tempo.

Tuttavia, a chiederlo in giro, molti di noi probabilmente non si sentono felici: la vita quotidiana e’ intrisa di affetti, impegni, rinuncie, obblighi e necessita’ che allontanano la felicita’ dalla vita.

Ma la felicita’ allora e’ l’espressione di un momento, e’ l’attimo che conduce all’apice della vita? Qualcuno ha detto: la felicita’ non e’ la meta, ma il percorso. Probabilmente e’ vero, ma il percorso non e’ sempre felicita’. Il percorso e’ sofferenza, dubbi, incognite ed e’ anche felicita’.

Personalmente non riesco a capire: perche’ quando sono a casa sogno di avere gratificazioni personali, quando ottengo risultati sogno di abbandonare e lasciarmi andare al caso, quando non faccio nulla sogno di lavorare, quando lavoro sogno di girare il mondo, quando giro il mondo sogno di stare con gli amici? Pare che l’uomo, come entita’, non riesca mai ad essere felice di quello che ha tra le mani. Non si accontenta. Vuole di piu’, vuole qualcosa di diverso. E’ come se l’incapacita’ dell’essere umano di essere “semplicemente” felice conduca alla sofferenza e all’insoddisfazione.

Chissa’. Forse e’ inutile cercarla. Forse la felicita’ la si trova a momenti. Forse e’ cosi’ che va la vita. Si vive soddisfatti (o insoddisfatti, a seconda dei casi) nell’attesa di spazzi di felicita’.

Che la felicita’ sia una chimera?

20 ottobre 2007

Singapore


4 giorni a Singapore. Questo e' quello che mi e' stato concesso. Me la ricordavo esattamente come la ho ritrovata questa volta. Una citta' ordinata, pulita, sicura, bella. Una citta' come, se non meglio di, molte citta' euopee. Tecnologicamente avanzata, con moderni grattacieli e infrastrutture la citta' farebbe invidia a molte capitali europee per la pulizia (ovunque: nelle strade, nei locali, nella metro) e per l'ordine (quasi esasperato). Parlando con persone a caso, molti dei quali taxisti, si percepisce un orgoglio per la citta' e la consapevolezza che il turista porta ricchezza nel paese e per questo va rispettato. Per questo la cortesia e' quasi d'obbligo, i sorrisi si spendono copiosi sulla faccia dei locali, ad una richiesta di aiuto o di informazione il locale si precipita e offre piu' di quello richiesto. Cose che da valore ad una citta ed al paese. Il livello di delinquenza e' molto basso, le droghe sono inesistenti, le "ragazzate" sono molto rare. Singapore, una perla di modernita' in mezzo ad paesi a ben diverso grado di sviluppo. La cosa che 'piu' piace ai Sigaporensi e' il cibo e lo shopping. Non si muore certamente di fame: c'e' cibo ad ogni angolo di strada, in ogni centro commerciale, ovunque. Qualche ristorante europeo, italiano o americano, ma la maggior parte e' cibo asiatico. Ed economico. Sono riuscito a mangiare per 4 dollari di Singapore, circa 2 euro. E lo shopping sembra lo sport nazionale. Shopping center and Malls ovunque. Cé'davvero di che sbizzarirsi. Eppoi i centri commerciali hanno un vantaggio notevole: sono dotati di aria condizionata, il che non guasta quando all'' aperto l'afa e la calura rendono faticossisismo ogni sforzo fisico, tanto che e'difficile pensare di passare una giornata completa all'aperto.

29 settembre 2007

Tradimenti necessari

Ho cercato di convincermi che lasciare delle persone non e' la cosa peggiore che puoi fare loro. Puo' risultare triste, ma non deve obbligatioriamente essere una tragedia. Se non si lasciasse niente o nessuno non ci sarebbe spazio per il nuovo. Naturalmente andare avanti e' un'infedelta' verso gli altri, verso il passato, verso la nozione di se stessi. Forse ogni giorno dovrebbe prevedere almeno un'infedelta' essenziale o un tradimento necessario. Sarebbe un atto ottimista, un atto di speranza, che garantisce fiducia nel futuro, la prova che le cose possono essere non solo differenti, ma migliori.



20 settembre 2007

Red Rubber Ball

Each day is a chance to re-commit to your red rubber ball.
Each day is a chance to find teachers and hear them out.
Each day is a chance to look for something unexpected.
Each day offers 86.400 fresh opportunities to work out your creative muscle, to prepare to shine and to speak up.
Run after your red rubber ball today and every day, it will became your future.

10 settembre 2007

Ai miei amici

Si dice che chi trova un amico trova un tesoro. Ed e' a lui che mi rivolgo.

Grazie. Grazie per esserci. Grazie a tutti gli amici.

So benissimo che siete qui vicino a me e lo sareste anche senza un grazie. So che l’amicizia e basata proprio sull’aiuto e la gioia dell’aiuto dato nel momento del bisogno, soprattutto quando l’aiuto non e’ ne’ richiesto ne’ sperato. E’ un conto che finisce sempre a zero, non ci sono creditori ne’ debitori. Lo so.

Nonostante sia scontato, nonostante sia naturale, nonostante non sia necessario, nonostante tutto, lasciatemi urlare al mondo il mio grazie.

L'Italia

Vorrei dar voce ad una riflessione che riguarda l’Italia.
Prendiamo in considerazione l’economia globale. E’ piuttosto facile sostenere che gli ultimi anni hanno visto una forte crescita (del PIL, come si dice), in un contesto di relativa pace (almeno tra le super potenze). I redditi sono mediamente aumentati piu’ che proporzionalmente e il benessere mondiale e’ accompagnato da una produzione senza pari. Gli USA, la Cina, la Bran Bretagna, il Canada sono tra i paesi che, avendo il peso maggiore all’interno delle relazioni internazioni, stanno vivendo un periodo di forte espansione. In genere, anche in altri continenti si vive una fase di proserita’ (relativa). Questo, meglio precisarlo per evitare polemiche, di media. Il mondo, come media di tutti i paesi, sta crescendo piu’ ora che nel passato.

Tra i paesi manca pero’ l’Europa. Nonostante l’Eurpoa rappresenti, in termini di potenza, la terza o quarta forza economica, tuttavia la sua crescita e’ tenue, quasi impercettebile. Tra questi paesi l’Italia sono quelli che sta performando peggio. E’ vero che recentemente l’Europa in generale si sta riprendendo (ma anche il peggior gelataio della citta’ vede aumentare le proprie vendite quando il caldo aumenta e la gente diventa piu’ ricca e compra piu’ gelati – un po’ come come dire che l’Eurpa sta vivendo al traino degli altri paesi a crescita piu’ forte) e gli USA stanno patendo lo scotto del sub-prime market e dell’innalzamento degli spread sulle aziende, ma, se escludiamo gli ultmi due mesi, il trend mi pare abbastanza chiaro e visibile.

Sicuramente i motivi sono tra i piu’ vari e non e’ facile ricondurre il tutto al semplice nesso causa-effetto. Interdipendenze e strutturalita’ mettono a dura prova i tentativi di ricondurre il il divario a ben determinati fattori: ritengo tuttavia che una parte di questa mancanza di slancio e accelerazione europea sia legata alla poca flessibilita’ del mercato del lavoro e al peso sociale dello stato. Lo osservo considerando le differenze tra Italia e Gran Bretagna: non sono un esperto e quindi non vorrei essere incorretto ma in termini di trattamento del lavoratore e dei diritti/doveri, in termini di flessibilita’ (di prospettive, di crescita aziendale, di orari di lavoro), in termini di potere contrattuale, di mobilita’ del lavoro stesso osservo differenze abissali. In Stati piu’ liberali, come USA e GB (senza per questo, sia chiaro, prenderne le difese) i diritti sono quelli “minimi” (minimi, chiaramente, all’occhio del legislatore, non certo del lavoratore) e il resto viene “lasciato” al lavoratore. Minimi giorni di ferie, minima licenza post-parto, minimi contributi pensionistici, solo per citare qualche esempio. D’altro canto vegono date opportunita’ che a malapena ritrovo in Italia: diritto ad una carriera, diritto a cambiare lavoro (diritto a trovarne uno, in primis), diritto alla flessibilita’, diritto alla crescita, diritto alla remunerazione legata al risultato.

Mi pare che la qualita’ della vita in Italia sia nettamente piu’ alta che in altri paesi (se non altro per il sole) e ci sono piu’ garanzie a tutela del lavoratore (magari non per i temporanei) e della famiglia. Si lavora meno e si vive meglio. Mica male, vero?
Purtroppo, e spero di sbagliarmi, vedo il rischio di una caduta economica difficile da trasformare in slancio. In una situazione dove l’economia globale gira (provocatoriamente apro le porte a critiche) resto un po’ allarmato ad osservare le difficolta’ che alcuni dei paesi europei si trovano ad affrontare. Non vedo in Italia quella crescita che prevederei normale in un contesto internazionale come quello odierno, non vedo flessibilita’, non vedo opportunita’ di rimboccarsi le maniche e lavorare, non vedo stimoli per gente con idee. Vedo invece un paese di vivacchia alla meno peggio, che vive di bricciole di altri, che non ha la forza per sfidare il mercato ma solo per adagiarsi al mercato. Peccato. Speriamo che qualcosa presto cambi presto.

7 settembre 2007

A man's mind

"The breath and then depth of a man's mind is in direct proportion to the extent of his curiosity"

4 settembre 2007

L'essenziale e' invisibile agli occhi



[...] "No", disse il piccolo principe. "Cerco degli amici. Che cosa vuol dire 'addomesticare'?" "E' una cosa da molto dimenticata. Vuol dire 'creare dei legami'?..." "Creare dei legami?" "Certo", disse la volpe. "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io saro' per te unica al mondo". "Comincio a capire" disse il piccolo principe. "C'e' un fiore... credo che mi abbia addomesticato..." "E' possibile", disse la volpe. "Capita di tutto sulla Terra..." "Oh! non e' sulla Terra", disse il piccolo principe. La volpe sembro' perplessa: "Su un altro pianeta?" "Si" "Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?" "No". "Questo mi interessa. E delle galline?" "No". "Non c'e' niente di perfetto", sospiro' la volpe. Ma la volpe ritorno' alla sua idea: "La mia vita e' monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio percio'. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sara' illuminata. Conoscero' un rumore di passi che sara' diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi fara' uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiu' in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me e' inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo e' triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sara' meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che e' dorato, mi fara' pensare a te. E amero' il rumore del vento nel grano..." La volpe tacque e guardo' a lungo il piccolo principe: "Per favore... addomesticami", disse. "Volentieri", disse il piccolo principe, "ma non ho molto tempo, pero'. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose". "Non ci conoscono che le cose che si addomesticano", disse la volpe. "Gli uomini non hanno piu' tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose gia' fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno piu' amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!" "Che cosa bisogna fare?" domando' il piccolo principe. "Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe. [...]Cosi' il piccolo principe addomestico' la volpe. E quando l'ora della partenza fu vicina: "Ah!" disse la volpe, "... piangero'". "La colpa e' tua", disse il piccolo principe, "io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi..." "E' vero", disse la volpe. "Ma piangerai!" disse il piccolo principe. "E' certo", disse la volpe. "Ma allora che ci guadagni?"
"Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano". Poi soggiunse: "Va' a rivedere le rose. Capirai che la tua e' unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalero' un segreto". Il piccolo principe se ne ando' a rivedere le rose. "Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente", disse. "Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora e' per me unica al mondo". E le rose erano a disagio. "Voi siete belle, ma siete vuote", disse ancora. "Non si puo' morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, e' piu' importante di tutte voi, perche' e' lei che ho innaffiata. Perche' e' lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perche' e' lei che ho riparata col paravento. Perche' su di lei ho uccisi i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perche' e' lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perche' e' la mia rosa". E ritorno' dalla volpe. "Addio", disse.
"Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. E' molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale e' invisibile agli occhi". "L'essenziale e' invisibile agli occhi", ripete' il piccolo principe, per ricordarselo. "E' il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa cosi' importante". "E' il tempo che ho perduto per la mia rosa..." sussurro' il piccolo principe per ricordarselo. "Gli uomini hanno dimenticato questa verita'. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa..." "Io sono responsabile della mia rosa..." ripete' il piccolo principe per ricordarselo.


3 settembre 2007

Latitudine e Longitudine


Immaginate di essere in un’isola deserta ma di non sapere in quale punto dello sperduto mare vi trovate. Immaginate anche di aver trovato uno scrignio con un tesoro e il tesoro contiene un sestante, un cronometro, le effemeridi, un po di carta e una matita. "Che culo!" direte. Ma oltre ad imprecare per la vostra condizione di Robinson Crusoe (senza Venerdi') in un’isola deserta potete anche cercare di capire dove siete scoprendo la vostra latitudine (quanto a nord / sud rispetto l’equatore siete) e longitudine (est / ovest rispetto un meridiano di riferiemento).
La latitudine si trova abbastanza facilmente. Dall’altezza del sole a mezzogiorno (tramite le rette di altezza) o dalla posizione delle stelle nel cielo. Per le stelle in cielo cerco di fare un esempio semplice: la stella polare indica il nord (e lo indichera' per altri anni ancora). Se siete gia’ al polo nord la stella polare sara' sulla vostra testa mentre se siete all’equatore la stella polare sara’ all’orizzonte. Quindi dalla sua altezza (o angolo) rispetto l’equatore potete calcolare quanto a nord siete rispetto l’equatore. Per fare questo basta il sestante (e' lo strumento che calcola l'angolo tra l'orizzonte e il punto osservato).

Per la longitudine il problema e’ leggermente piu’ complesso. Sarebbe facile se si sapesse l’ora in un punto di riferimento e nel luogo in cui si e’. La differenza di tempo rappresenta infatti la differenza di longitudine dal punto di riferimento. Altro esempio: se sapessi che a Napoli sono le 2 e 30 di pomeriggio e che nell’isola e’ mezzogiorno (l’ombra e’ la piu’ corta della giornata) allora so che il sole ci mettera’ 2h e 30min a raggiungere l'isola e sapendo che ce ne mette 24 a girare attorno alla terra (per fare 360 gradi) vorra’ dire che sono a 2.5/24 di 360 gradi, cioe’ 37 gradi a ovest di Napoli (quindi mi trovo circa alla stessa longitudine delle Azzorre). Non e’ molto intuitivo ma se ci fate caso l’unica differenza tra, per esempio, Napoli e New York e' la differenza di tempo (si si va bene, e tutto il resto). Ma se sapeste di essere su quella latitudine, non sapeste di essere a New York e pero' sapeste che tra Napoli e voi ci fossero 135 gradi verso ovest (o 9 ore di differenza) allora scoprireste di essere a New York (potreste obiettare che basterebbe guardare fuori dalla finestre per capire se siete a Napoli o New York. Giusto, e sarebbe anche piu' semplice piuttosto che fare tutti questi calcoli).
Il mondo ha deciso di far partire il meridiano fondamentale da Greenwich, in Inghilterra. Se quel benedetto orologio che abbiamo trovato nello scrignio segnasse l’ora di Greenwich allora potrei sapere quanto ad est o ovest mi trovo rispetto Greenwich! Figo! E potrei sapere sempre dove sono in ogni istante. Basta avere questi strumenti. Che poi questo sia assolutamente inutile perche' siete in un'isola deserta e non sapete che farvene della posizione visto che comunque morirete di fame o cannibalizzati o trucidati... beh... questa e' un'altra storia....


Oggi, molto piu' semplicemente si puo' fare tutto avendo solo un GPS. Lo strumento vi dira' in ogni istante dove siete sulla terra con una precisione di qualche decina di metri e non necessita di altro che di batterie caricabatterie.
Ma se pensate al passato, a tutto quello che precede il 1750, alle navigazioni commericali, alla scoperta dei continenti, ai viaggi oceanici, alla scoperta di nuovi mondi, il tutto veniva fatto senza conoscere la longitudine. Mancando un orologio preciso e pratico (un orologio a pendolo a bordo dei vascelli non era molto utile) non era possibile calcolare la longitudine. Si navigava, si fa per dire, "a naso".

30 agosto 2007

Capitan Bianchetti


...non cambiero' mai, lo so.....
Sara' sempre cosi', non cambiero' mai, ne sono sicuro,
nonostante gli uomini, le amicizie, gli amori gli anni e la paura
del loro trascorrere........ tornero' al mare, sempre,
non saro' cambiato..........va,
viene e ricomincia, l'abbandonero', andro' verso la terra e i deserti,
ma tornero' a morirgli vicino e sara' la' e io saro' la',
entrambi fedeli al nostro patto.

Simone Bianchetti

28 agosto 2007

prova tecnica di trasmissione

oh oh... 1 2 3 prova.... prova prova....
e' incredibile. incredibile quanto sia difficile trovare da scrivere quando se ne ha l'opportunita'.
E' una metafora della vita. Hai la tua vita e puoi decidere cosa farne. E' come avere un foglio bianco e decidere cosa scrivere. Eh gia'. Ma cosa scrivere? Come vivere la propria vita? Che fare? andare all'Universita' o lavorare? Uscire stasera o restare a casa, magari leggendo un libro? Che lavoro? sei veramente innamorato? Sposarsi o no? Quanti figli? Ma perche' farne?
Ok, cerchero' di mettere un po' di ordine nella mia testa e poi ci riprovo. provero' a dare un senso compituo ai miei deliri.