28 settembre 2008

Alitalia


Non ho intenzione di essere polemico con nessuna delle parti in gioco ma vorrei poter esprimere il mio pensiero su una situazione delicata coome quella dell'Alitalia, cogliere lo spunto per una riflessione generale e vorrei che qualcuno mi aiutasse a capire. Da una parte l'Alitalia, azienda pubblica, non ha la capacita' di stare sul mercato e invece di produrre reddito a beneficio dell'Italia (che tanto avrebbe bisogno di utili), produce perdite per circa 300 milioni di Euro l'anno (circa 1 milione di Euro al giorno, pare incredibile). In una situazione del genere qualsiasi azienda privata o fallirebbe o verrebbe ristrutturata. In Italia invece si e' deciso che il problema Alitalia, azienda che gia' da anni soffre la competizione internazione e che gia' nel passato aveva piu' volte cercato di ristrutturarsi e "alleggerirsi" dei debiti riducendo i costi del personale scontrandosi con i sindacati, deve essere risolto dai politici. Si e' deciso che Alitalia non poteva essere venduta a Air France (siamo Italiani, per favore!), senza considerare le leggi odierne di mercato: compagnie americane sono comperate da brasiali, l' azienda nucleare inglese di dominio pubblico e' stata comperata dai francesi (vi sareste immaginati? aziende inglesi che vengono vendute ai francesi), e altre situazioni per per brevita' trascuro. Gia' su questa scelta mi trovo in disaccordo. La globalizzazione e' anche questo. E' poter comperare un cellulare Samsung o un portatile Toshiba perche' gli Olivetti non ci piacciono. E' poter volare Air France perche' i voli Alitalia non ci piacciono - e' comperare un veicolo honda perche' la fiat non aggrada. Ma sorvoliamo (ehm..) questo punto, il punto sulla necessita di avere una compagnia di bandiera (come se gli italiani fossero legati alla propria bandiera).
Tutte le possibili ristrutturazioni sono state violentemente criticate dai sindacati negli anni passati. Ora, senza voler entrare nel merito della cose (e considerando che i sindatacati sono, a mio parere una delle grande conquiste della societa' moderna) ma perche' murarsi dietro privilegi di una piccola classe a discapito di tutti? A confronto tutte le altre compagni aeree hanno in proporzione meno addetti (piloti, hostess, forza lavoro a terra) e sono meno costosi (e, per quanto ne so, i voli sono frequentati da piu' passeggeri, rendendo ciascun volo piu' economicamente "efficiente"). I bilanci delle altre compagnie aeree lo confermano. Perche' invece i sindacti decidono di arroccarsi su posizioni oggi palesemente ridicole? I nostri piloti sono cari, il nostro personale e' troppo numeroso. Non sono io a dirlo, sono i giornali. Ma no, meglio difendere con i denti i lavoratori e mandare in crisi la compagnia. Come troppo spesso accade in Italia i diritti dei singoli (o di categorie) ledono la collettivita'. E i sindacati, nella loro miopia, non vedono oltre il loro naso (lottano per conservare i benefit dei vecchi senza pensare ai nuovi giovani che potrebebro entrare in azienda), o non vogliono vedere. Ma sorvoliamo anche su questo.
Poi il nostro Governo si e' presa la briga di risolvere la questione. La bad company sara' a carico dello stato, dei contribuenti che si ritroveranno a pagare (a proposito, che fine ha fatto il prestito fatto, violando la legge sulla concorrenza, a tassi di favore? Chi paghera' per questo?) per questo scorporo. La good company verra' invece venduta (si dice) per 400mn di Euro. Dicono che valga 1 miliardo di Euro o piu' (e guarda caso sara' di nuovo l'Italia a soffrire del mancato profitto). Ma se anche fosse venduta al valore di mercato (cosa che mi pare troppo strana per essere vero... che interesse avrebbe Cai di comperare qualcosa a mercato? E non ditemi che lo farebbe per "salvare" la compagnia italiana. Spirito di sacrificio, vero? Ma va!), l'idea oggi e' di rivendere la minoranza e forse la maggioranza a Lufthanssa o Air France. Ma allora cosa si e' raggiunto? Non sara' la maggioranza ma la compagnia straniera dettera' comunque le condizioni. E saremo comunque in mano straniera. Ma il tutto non era nato per evitare di cadere in mani straniere? Non capisco.
Il fallimento sarebbe forse stata la cosa migliore. Con il fallimento sarebbero venute fuori le responsabilita' (anche se solo formali e anche se nessuno avresse poi realmente pagato il debito morale del fallimento) e i debiti sarebbero stati pagati e si sarebbe chiusa la situazione imbarazzante. Nessuno avrebbe cercato di guadagnare sui soldi dei contribuenti.

Penso ai soldi spesi negli ultimi anni per tenere a galla una bagnarola piena di falle, ai soldi spesi per rattoppare bilanci imbarazzanti. Penso ai privilegi dei piloti, al costo delle hostess, ai voti politici presi nel passato grazie a politiche di assunzione che poco hanno a che vedere con la concorrenza di mercato. Penso alla miopia dei sindacati. E penso che forse sarebbe stato meglio riabilitare gli esuberi in altri lavori piuttosto che spedere i soldi dei contibuenti. Non nego la necessita' di interventi pubblici nella gestione della societa'. Purtroppo ogni volta che in Italia i politici intervengono combinano spesso piu' danni che benefici. Come mi ha detto un amico "Non si riesce a distinguere la gestione della res publica dalla politica."

26 luglio 2008

I mass media e la cultura alternativa


Lo avete sicuramente notato: mi piacciono le citazioni. Possono essere semplici frasi che cercano di illustrare una verita' o semplici paragrafi che descrivono situazioni. Questa volta, pero', non mi limitero'a citare un passo estratto da un testo: mi permetto anche di consigliarvi una lettura. Il libro di Claudio Giunta, "L'assedio del presente", da cui la citazione e' tratta, rappresenta una attenta e critica visione della cultura di oggi. In particolare l'autore spiega il suo puntoi di vista sulla rivoluzione culturale in corso, descrivendo i mass media e la cultura alternativa; delinea anche il fallimento degli organi che avrebbero dovuto difendere una educazione umanistica (famiglia, chiesa, universita', scuola). Il libro e'una ottima lente di ingrandimento sulla realta'culturale di oggi - indipendentemente dalle opinioni che ognuno si porta dietro - illustrandone i difetti. Qui sotto vi presento un breve paragrafo sulla imposizione delle norme sociali, ma il libro tutto merita una attenta lettura.

".. La terza funzione (dei media, ndr) e' l'imposizione o la riaffermazione delle norme sociali. Lodando cio' che e' normale e censurando cio' che non lo e', i media sono una scuola di conformismo. Identificano il buono e il desiderabile con cio' che la maggioranza dei cittadini perbene considera buono e desiderabile, e puniscono, rendendole pubbliche, le deviazioni dal senso comune. Cosi', in modo indiretto ma efficace, impediscono lo "sviluppo di opinioni genuinamente critiche".[...] Come strumenti della conservazione, votati alla difessa dello stato di cose esistente, i media potevano essere buoni alleati dell'educazione tradizionale e dei valori o degli pseudo-valori su cui questa si fondava: religione, rispetto per l'autorita', famiglia, etica del sacrificio. Oggi questa difesa dello stato di cose esistente non e' piu' necessaria. Lo era quando esisteva, almeno in teoria, un'alternativa possibile e temuta, un altro possibile ordine sociale. Ora che lo stato delle cose e' uno solo, che nessuna alternativa sembra anche lontanamente realizzabile e che le leve del potere sono saldamente in mano non della politica ma dei Trust industriali e della finanza - ora l'ordine si e' invertito. Se un tempo i media controllati dal potere politico servivano a rassicuare tutti che tutto andava nel verso giusto, che un'autorita' buona e saggia vegliava sulle nostre vite e che tutti i problemi si potevano risolvere attraverso la ragionevole applicazione delle ragionevoli virtu' borghesi, oggi i media controllati dai trusts e dalla pubblicita' hanno un interesse opposto. Un utente sicuro di se' e del suo mondo e' l'ultima cosa che la macchina del consumo possa augurarsi. Al contrario, essa deve mantenere chi guarda in un continuo stato di ansia e di insoddisfazione su di se': cu cio' che egli e', fa, possiede. Percio', mentre quello che i media di un tempo insegnavano era il puro conformismo, oggi l'idea-guida, imposta dall'indutria del superfluo che materialmente paga e possiede i media, e' quella di distinguersi, di non essere come gli altri: un'idea-guida a cui corrisponde una complementare paura-guida sulla quale la pubblicita' costruisce i suoi imperi, la paura del declassamento, di diventare appunto normali come tutti gli altri. E non servono analisi socio-economiche particolarmente sottili per vedere una cosa che affiora di continuo nel linguaggio, nell'abuso tragicomico di parole come esclusivo o prestigioso riferite a esperienze che - per la logica stessa del mezzo che le pubblicizza, un mezzo di massa - non possono essere ne' esclusive ne' prestigiose"

6 luglio 2008

come succhiare un chiodo

" perche' sa, se io faccio questo mestiere di girare per tutti i cantieri, le fabbriche e i porti del mondo, non e' mica per caso, e' perche' ho voluto. Tuti i ragazzi si sognano di andre nella giungla o nei deserti o in Malesia, e me lo sono sognato anch'io; solo che a me i sogni mi piace farli venire veri, se no rimangono come una malattia che uno se la porta appresso tutta la vita, o come la farlecca di un'operazione, che tutte le volte che viene umido torna a fare male. [...] Adesso poi ci ho fatto talmente l'abitudine che se dovessi mettermi tranquillo verrei malato: per conto mio il mondo e' bello perche' e' vario.[...] Se uno sta a casa sua magari e'tranquillo, ma e' come suchiare un chiodo. Il mondo e' bello perche' e' vario."
Primo Levi, "La chiave a stella"

24 maggio 2008

La tempesta


Il guaio della tempesta è che non conta come è, ma cosa può diventare. Il problema, lo scopri con stupore, non esiste quando sei già in alto mare: se proprio non è una tempesta perfetta, prosegui: con più impegno, attenzione, ma quasi mai con paura. Di più: mentre un mare un pò mosso sembra più mosso a chi ci naviga che a chi lo vede da terra, per la tempesta è il contrario: appare peggiore da terra che a chi la affronta.

20 aprile 2008

L'unico amico e' il suo piu' spietato nemico!


"Le cose piu' meravigliose sono sempre le piu' inesprimibili, le memorie piu' profonde non producono epitaffi; questo capitolo lungo sei pollici e' la tomba senza pietà di Bulkington. Dico soltanto che accadeva di lui come di una nave squassata dalla tempesta, la quale miseramente avanzi lungo la costa, sottovento. Il porto le darebbe volentieri soccorso; il porto e' pietoso, nel porto c'è sicurezza, comodità, focolare, cibo, coperte calde, amici e tutte le cose care alla nostra vita mortale. Ma in quella bufera il porto, la terra, sono per la nave il rischio piu' temibile. Essa deve fuggire ogni ospitalità; toccare terra una volta, anche soltanto sfiorando la chiglia, significherebbe far rabbrividire la nave da cima a fondo. Con tutta la sua forza essa apre ogni vela per allontanarsi da terra e, cosi' facendo, lotta contro i venti che volentieri la spingerebbero a riva e si getta di nuovo alla ricerca dei mari sconvolti, purchè lontani da terra; per cercare salvezza si precipita disperatamente nel pericolo: l'unico amico è il suo più spietato nemico" Moby Dick, cap XXIII

7 aprile 2008

I marinai


Nel silenzio, punteggiato dallo scricchiolio dei container, appena mossi dall'ondeggiare della nave, mi pareva di capire finalmente i marinai: anche loro erano degli evasi; anche loro scappavano dal mondo di “terra”, dagli impegni sociali, dal peso delle relazioni, dal vivere settimane e mesi in quell’universo costante e continuamente mutevole di acqua e di cielo, per godere della semplice sagoma di un’isola o di un faro che occhieggia nell’oscurità. Bella gente i marinai! Ma anche loro destinati a sparire. Già non si chiamano più così: “marinai”, “mozzi” e “nostromi” sono stati aboliti e al loro posto, per ragioni sindacali, è subentrata una nuova categoria: quella dei ”comuni polivalenti”, gli uomini tuttofare. Succede lo stesso con la sapienza marinara, accumulata attraverso i secoli: il mondo moderno non sa più cosa farsene. Gli strumenti ormai fanno da sé. Un tempo, un marinaio doveva aguzzare lo sguardo per riconoscere, in un certo increspare delle onde, la presenza di un banco di pesci, per vedere da lontano la navigabilità di una rada, o per accorgersi di un fondale basso in cui la nave poteva incagliarsi. Ora tutto questo lavoro e’ affidato ai sonar e ai radar, che ogni anno diventano più precisi. Eppure, quanta conoscenza viene persa! Quante antenne naturali cadono dalla testa dell’uomo per essere rimpiazzate da antenne elettroniche! […] Quella di perdersi nel tempo è una cura semplice per i mali dell’anima, ma nessuno sembra permettersi facilmente. Per anni avevo sognato nei momenti di depressione, di mettere idealmente sulla porta della mia stanza un cartello che dicesse “Sono fuori a pranzo” e poi di far durare quell’assenza giorni o settimane. Finalmente c’ero riuscito. Sulla nave ero costantemente “fuori a pranzo” e avevo tutto il tempo di osservare uno stormo di rondini che dal Mediterraneo era venuto a bordo e che ogni tanto usciva per volteggiare sul mare e tornare a nascondersi fra i container. Avevo il tempo di pensare al tempo, a come il presente spesso mi annoia e debbo immaginarlo nel modo in cui lo ricorderò per poterne godere sul momento. Avevo il tempo di farmi commuovere dall’improvvisa comparsa – chi sa da dove! – di un solitario uccellino grigio con il petto giallo e le ali a strisce nere che s’era posato su una gru vicinissima a me e non smetteva di guardarmi.
“Un indovino mi disse” di Tiziano Terzani

1 aprile 2008

Viaggiare


Quando smetterai di sognare,
non parlarmi.
Quando smetterai di voler bene,
non pensarmi.
Quando la terra del fuego non
scalderà più il tuo cuore,
non guardarmi.
Ma quando tutto questo non si
avverrà, cercami
e in qualche modo
viaggieremo insieme.

18 marzo 2008

Laos



Qualcuno lo ha definito un paese romantico. Io non so bene se il Laos si possa definire romantico. Di certo pero’ mette tenerezza. Non che ci abbia vissuto, ne’ che ci abbia passato molto tempo, ma pochi giorni dopo la caotica Thailandia e prima del vivace Vietnam sono bastati per assaporare questo paese. Dal primo istante dopo il confine, passato il ponte di Nong –Khai (unico ponte in Laos, vedi post) ci si accorge di essere in una terra che lascia basiti. Dal confine non ci sono autobus di linea, ne’ treni. Niente viaggi organizzati. Solo poveri taxisti che con i loro tuk-tuk cercano di arrivare a sera. Gli autobus? Guardatevi i film italiani degli anni ’30 e se vedete degli autobus, molto probabilemnte questi sono piu’ simili agli autobus laotiani che gli autobus odierni. Scordatevi l’aria condizionata, i finistrini chiusi, i sedili puliti. L’aria e’ polverosa, come lo solo le principali strade (no cemento, solo terra battuta), i sedili di plastica e chi arriva tardi si siede sulle seggioline di plastica sistemate sul corridoio per l'occasione. Altro che cinture, legge sulla sicurezza, 626 o menate del genere. Dimenticavo. Al sotto i sedili, in mezzo, ovunque, grossi pacchi di merce (patate? Riso?) riempiono buchi e spazi, tanto che il viaggio si trasforma in un odissea: scomodi, seduti pericolosamente su sedili pericolanti, correndo su strade sterrate, ricoperti dalla polvere rossa sollevate dai mezzi che precedono o che ci vengono incontro, fatica a respirare per la polvere, il caldo e i sobbalzi del terreno. I tempi di percorrenza? Una media dei 50 KM all’ora quando va bene. Partenze ritardate di ore, senza apparente giustificazione e senza che nessuno si irriti.
La vita in Laos scorre lenta. Come poteva essere in Italia diversi decenni fa’. Non si sa quando si parte, non si sa quando si arriva a destinazione. Non c’e’ fretta, c’e’ sempre tempo per un sorriso, per uno sguardo alla rigogliosa vegetazione. Non c’e’ l’ansia di arrivare. La vita scorre lenta, al ritmo del fruscio delle palme. Scorre felice. Si vive con quello che la natura produce. Pollo, riso, bambu’, banane sono su tutte le bancarelle, su tutti i piatti. I bambini giocano allegramente con foglie di piante, vivono in case fatte di bambu’, pavimenti fatti di terra rossa, cucine che guarderemmo con ribrezzo e con la TV. Probabilmente la popolazione non ha scelto questa vita, probabilmente e’ stata costretta dal regime ad adattarsi. Forse loro, i laotiani ci vedono come i ricchi, piu’ agiati. E lo siamo. Ma siamo anche piu’ felici? Nei piccoli paesini (per noi, metropoli per i laotiani) mancano in molti punti le luci sulle strade, mancano i marciapiedi, mancano i semafori. Insomma, mancano molte delle cose che oggi consideriamo fondamentali. La cosa curiosa o tragica, dipende dai casi, e’ che il Laos non vuole cambiare. Sara’ per via del regime ma il Laos aberra l’ammodernamento, la tecnologia, il progresso. Forse e’ davvero il paese dei sognatori. Il paese di chi sogna un mondo libero da legami, un mondo essenziale. A chiederlo anche loro vorrebbero la tecnologia, benessere, i soldi per i viaggi, per ingrassare, per vivere meglio. Il dio denaro sarebbe il loro Dio se solo potessero scegliere. Ma per fortuna o putroppo non possono. Siamo sicuri, pero', che sia un male?

12 marzo 2008

Le rane di Moitessier



Chiesero a Moitessier perche' avesse preso il largo. "In Vietnam", rispose, "per cucinare le rane, le mettiamo in una pentola d'acqua fredda, a fuoco lentissimo. Quando la rana s'accorge che l'acqua bolle, e' già lessa. Io saltai fuori prima".

Devo dire altro?

6 marzo 2008

Rio de Janeiro



C'e' un solo modo per dirlo: Rio e' una città meravigliosa. Si può discutere su molte cose, ma non sul fatto che Rio non sia meravigliosa. E vi spiego perché la ritengo tale, nonostante le facili ironie.

Il posto. Incastonata tra 3 tra le più belle spiagge (Copacabana, Ipanema, Leblon) del sudamerica, con verdi e ripide colline alle spalle, un lago poco distante e un verdissimo ed enorme parco, Rio si presta ad essere eletta una delle città più belle del mondo. Se a questo aggiungete che si trova poco più a sud del tropico, dove la temperatura media dell'anno e' sui 25 gradi e dove raramente si scende sotto i 15 gradi in inverno... beh... difficile trovare un posto più adatto.

I carioca. Che tu sia donna o uomo non importa. Se sei carioca sei anche abbronzatissimo/a, ti piace sederti sulla sedia guardando il mare o giacere sul telo sulla spiaggia, gustarti una bibita ghiacciata o dei gamberi freschi. Ti piace mettere in mostra le parti belle del corpo, sorridere allo sguardo dei curiosi violatori di privacy, ti piace giocare a calcio sulla spiaggia e goderti la vita. Ti piace salutare il sole che tramonta all'orizzonte con un lungo applauso, insieme a tutti gli altri. Una Rio senza i carioca sarebbe come un pesce vivo fuori dall'acqua. Non può resistere a lungo.

La vita. Il sole sorge presto, tramonta quasi sempre alla solita ora. Durante tutto l'anno si presenta più o meno caldo, portando impiegati, lavoratori, turisti a gustarsi le ore del pranzo, del dopolavoro o del giorno libero in spiaggia, passeggiando lungo il bagnasciuga per il lungomare. In poche città ho visto la gente libera dal lavoro precipitarsi in spiaggia come a Rio. Il sole ha modificato le abitudini, tanto che i carioca sorridono mentre passeggiano, camminano i shorts e maglietta felici della giornata di sole. Girando in città si può gustare uno dei molteplici ed esotici succhi o spremute di frutta, ci si può riempire di cibi veloci, mangiare la comida da chilo o gustarsi dell'ottima carne (mai mangiato carne migliore). Sapere che il mohito, il corcovado, copacabana, il pan di zucchero saranno ancora li' domani mattina insieme al sole non può che far sorgere un sorriso a chi vive, visita o passa per Rio. Difficile trovare di meglio.

Certo. Ci sono anche i ma. I ma sono i rischi. Favelas e delinquenza riempono i titoli delle testate giornalistiche e delle TV. Ma con un minimo di attenzione questi rischi possono venire minimizzati. Basta conoscere le regole del gioco per riuscire a passare indenni dai rischi. Non credete troppo alle guide, agli allarmanti avvertimenti degli amici.

Rio è una città meravigliosa.

26 febbraio 2008

... e gli orologi (parte 2)


Harrison John "longitudine" nacque nel 1693 nello Yorkshire orignariamente come falegname e, come tale, costrui' orologi. Difatti costrui’ sia diversi orologi a pendolo che un orologio di una torre: quest'ultimo lo fece utilizzando legno lubrificante e duro (era il 1722), sperimentando soluzioni alternative. I migliori orologi del tempo sgarravano di circa 1 minuto al giorno, quelli di John H. di un secondo al mese! Saputo del premio del Longitude Act, Harrison si butto’ per 5 anni sull’orologio, chiamato poi, H1 (di 34 chili) completato nel 1735. Finito, lo presento' a Graham suo paladino e mecenate. Nella riunione per il premio, Harrison, davanti ad una commissione di professori e astronomi, non parlo’ dei pregi dell’H1, bensi' illustro' i suoi difetti e le possibili migliorie che avrebbe potuto raggiungere se avesse avuto tempo (e soldi) per costruirne un altro. Stano a dirsi, ma non vinse il premio. Ricevette pero' un anticipo per pagare i debiti e per continuare a lavorare sulle sue idee di come migliorare gli orologi. Nel 1737 creo' H2 ma non gli piaceva. Per i sucessivi 20 anni si dedico' all'H3. Una caratteristica fondamentale di quest’ultimo e' la presenza di un congegno di regolazione della temperatura, che tutti gli altri orologi prima del suo non avevano. L' H3 era alto circa 66 cm e largo 33. Nel 1753, ricevette un cronometro tascabile la cui misura era pero' sballata. Osservandolo e prendedno sputo da questo, nel 1759 Harrison se ne usci con H4 che assomigliava molto a quest'ultimo (un po’ piu’ grande delle nostre “cipolle” da tasca). Quest'ultimo rappresenta il passo decisivo verso gli orologi come li intendiamo oggi. Piccoli congegni che misurano il tempo con relativa precisione. Prima di Harrison c'erano i pendoli e nient'altro. Il premio non fu mai assegnato formalemnte, nonostante oggi la longitudine viene calcolata come differenza di tempo, quindi grazie alle invenzioni Harrison. Tutti i suoi orologi sono visibili all’osservatorio astronomico di Greenwich, dove riposano insieme agli strumenti utilizzati dai vari astronomi reali per la comprensione dell’universo celeste. Quindi, nonostante gran parte degli scienziati del tempo si opponessero all'idea che fosse possibile calcolare la longitudine come differenza di tempo (vedi articolo), e' proprio grazie agli orologi (e alla loro precisione) che oggi si riesce a navigare in sicurezza sapendo sempre latitudine e longitudine del posto in cui si naviga.

La longitudine.... (parte 1)


Era il 1707. Era una nebbiosa giornata di fine Ottobre. Piu’ o meno al largo delle isole Scilly, un gruppetto di pericolose isole messe li da chissachi’ a circa 20 miglia Ovest dalla punta piu’ a Ovest (Land’s End) dell’Inghilterra. Questo punto sulla mappa e’ stato il motivo principale e la svolta per la soluzione del problema della Longitudine. A quel tempo infatti non era chiaro a nessuno come si potesse calcolare da latitudine (est – ovest) in mare. Era relativamente semplice conoscere quanto a nord o a sud si stesse navigando rispetto un punto (dall’altezza del sole o dall’altezza della stella polare rispetto l’orizzonte) ma ben piu’ difficile era capire quanto a Ovest o Est si fosse una volta che si fosse perso il contatto con la costa. In quel 23 Ottobre, la marina britannica perse circa 2000 uomini e tre navi (e ancora oggi rappresenta la piu’ grande tragedia della marina di Sua Maestà) a causa dell’errore nel computare la longitudine. Una nave sola si salvo’ dal disastro. A seguito di questo disastro nel 1714 venne emanato una comunicazione con la quale si dava un premio a chi avesse risolto il problema della longitudine.
Oggi la questione pare superflua. I GPS dicono, ogni istante, in ogni punto della terra dove si e’. Anche senza il GPS, un cronometro e un sestante bastano per calcolate le rette di altezza con una certa precisione e capire, quindi, dove ci si trova in mezzo al mare.
Ma un tempo gli unici strumenti a disposizione erano una bussola (e la deviazione magnetica era si' conosciuta, ma tuttavia lontana dall'essere calcolata con la precisione necessaria), delle carte nautiche non propriamente precise (Le Scilly erano disegnate diverse miglia piu’ a sud di dove sono relamente), uno scandaglio a mano e un sestante (utile per il calcolo della latitudine).
Diverse teorie erano sorte riguardo a come risolvere questo problema. Gli astologi supportavano l’idea di trovare il punto nave tramite la conoscenza dellla posizione della luna o della posizione dei pianeti Medicei attorno a Giove. In pochi pensavano che la soluzione potesse essere trovata nella meccanica e per la precisone nella costruizone di un orologio. Ma dal 1714, quando il governo inglese rese noto che avrebbe dato un premio di 2000 sterline (del 1800esimo secolo!) a chi avesse trovato una soluzione al problema della longitudine con una approssimazione di ½ grado (1 grado all’equatore = 60 miglia), in diversi tentarono di trovare una soluzione, sia per la gloria che per il denaro. L’osservatorio astronomico di Greenwich era stato costruito e gia’ gli astonomi Hamsteed e Hally lavoravano sulla definizione delle carte stellari, tramite le quali speravano, un giorno, di trovare la longitudine.
Due infatti erano le scuole di pensiero: chi ci riuscisse attraverso l’astronomia e chi attraverso il calcolo del tempo (cronometro). In particolare Harrison John “longitudine” fu quello che piu’ di ogni altro contribui’ alla soluzione del problema.

21 gennaio 2008

Il successo

Failure’s hard, but success is far more dangerous.
If you’re successful at the wrong thing, the mix of praise and money and opportunity can lock you in forever.