4 agosto 2009

Il Fastnet


Il Fastnet e' un piccolo scoglio sulla costa sud occidentale dell'Irlanda. Il primo punto visibile per chi, dall'atlantico, si dirige verso la terrra dei Celti e si trova a sud. Su questi scogli hanno anche costruito (con fatiche disumane) un faro, uno dei tanti di aiuto ai marinai, uno di quelli che solo chi lavora con e va per mare apprezza davvero.
Ebbene, questo e' diventato per molti un simbolo, una sfida. Un po' come l'everest (con le dovute proporzioni): c'e' chi lo vede semplicemente come una montagna e chi invece vede in quelle rocce una sfida, un'simbolo per una prova di coraggio.
Ogni due anni ad Agosto prende il via una regata che, partendo dall'isola di Wight vicino a Southampton nel sud dell'Inghilterra, porta i concorrenti fino all'estremo ovest della costa inglese e poi su, a nord ovest fino a doppiare lo scoglio Fastnet per poi ripercorrere a ritroso il mare e finire a Plymouth. In tutto sono circa 600 miglia nautiche, circa 1000 chilometri di vela, senza sosta, senza scalo, senza pause. Per pochi e' una passeggiata, per molti una sfida. Io, da persona normale, rientro tra i molti che vedono questa regata come una sfida verso se stessi. Ci vuole una buona dose di preparazione, un po' di coraggio e un po' di follia per decidere di farla - almeno cosi' e' per me. Aggiungete ancora un'altra buona dose di follia per aver deciso di farla in doppio (ossia solo due persone a bordo).
Questa sfida, oltre a rievocare esperienze passate, sfide, successi e sconfitte quotidiane, mi riporta alla mente quelle persone che hanno condiviso in parte questo viaggio, o perche' direttamente interessate o perche' mi hanno fatto sognare in qualche modo o, ancora, perche' mi hanno insegnato qualcosa.
Chi, come mio padre, mi ha insegnato ad andare a vela. Mia madre che soffre in silenzio e fa fatica a dormire per il figlio che insegue un sogno. Il fratello con la sua presenza e gli amici che danno sostegno morale. Marco che mi ha avvicinato alla vela in UK e con cui ho avuto il piacere di preparare la precedente regata Fastnet. L'amico cervese scomparso che ha attraversato ben altri mari e ha superato ben altre sfide. Sua moglie Inbar che ha rinnovato in me il suo ricordo. La mia (ex) dolce meta' che, a suo tempo, mi ha dato (involontariamente) la spinta e la confidenza di fare dei passi importanti. Gli autori di tutti i libri di avventura, di storia navale e di mare.

Tutti quelli che, in modo diretto o indiretto, mi hanno aiutato o mi stanno aiutando. A loro dedico questo post.

29 giugno 2009

dedicato a capitan Bianchetti



Ancora non riesco a crederci.
Sono cresciuto sognando le imprese di mare, sfogliando le riviste di vela dalla fine, per cercare news dei miei personaggi preferiti. Raramente erano all’inizio delle riviste, piu’ facilemnte erano dei trafiletti su “bolina” o su “farevela” quando “farevela” racontava di vela spicciola. Divoravo i libri di Moitessier e sognavo di fare altrettanto.
Vivevo di sogni e di mare. Sognavo di fare delle uscite in solitario. Uscivo in barca con Simone quando lui faceva il militare a Ravenna e lui mi sembrava strano. Strano un bel po’. Mi hanno sempre attirato quelle persone con una volonta’ cosi’ forte da essere pronti a varcare le soglie dell’infinito per seguire i loro sogni. Ma lui era strano (solo poi ho capito che non era strano). Non sapevo bene dove fosse Plymouth, cosa fosse il Fastnet, le correnti erano solo un problema di teoria della navigazione. Simone poi parti’ per altri lidi, per avventure in giro per il mondo. Tutto mi sembrava cosi’ lontano e impossibile che continuavo a sognare. Un giorno la sera, per sfidare me stesso ho preso la barca dei genitori (a loro insaputa) sono uscito dalle dighe di Marina di Ravenna, mi sono diretto verso il mare ho dato fondo in 10 metri d’acqua e ho dormito li’. Per capire cosa vuol dire essere da soli in mare. Sono cresciuto cosi’.

E ora? Ora possiedo una barca. Non ho una casa mia, non ho una macchina, non ho neanche un mezzo di locomozione che mi appartiene ma ho una barca. Ed e’ ormeggiata a Cowes, sull’isola di Wight, nell’isola delle vele. Non solo, ma sono anche uscito in barca in doppio e anche in singolo! Ho partecipato ad una Fastnet in doppio, sono arrivato in Francia in solitaria. Ancora non riesco a crederci. E se tutto questo e’ vero, e lo e’, lo devo anche a Simone. Grazie a lui ho capito che i sogni non devono necessariamente rimanere sogni. Le imprese piu’ ardite, piu’ esagerate, piu’ “pazze” partono tutte da un punto semplice, dall’inizio. Per quanto questo inizio possa essere lontano dal traguardo tutto ha un inzio. Grazie a Simone ho voluto provare e ho iniziato anche io ad “andare” per mare.
Ogni volta che mi si stringe lo stomaco (tutte le volte in barca) e che sono in mare da solo Simone e’ nella mia mente.
Se solo fossi cresciuto prima. Se solo mi fossi fatto trascinare dall’entusiasmo di Simone.

Un altro anniversario. Il tempo passa ma i ricordi restano.

“A noi piacciono quei luoghi
Dove il vento e’ grigio e il cielo soffia forte,
nella moltitudine della solitudine
varchiamo le soglie dell’infinito”

Simone Bianchetti

28 maggio 2009

Immaginate




Immaginate che vi piaccia andare a vela ( ecchecavolO! ve la siete sempre cavata in mediterraneo!) e che decidiate di comperare una barca in Inghilterra. Iniziate a veleggiare ma sapete che il mare del nord e’ molto pericoloso quindi lo rispettate al pari delle cose che si temono. Immaginate poi di farvi prendere la mano e di iscrivervi alla prima regata in doppio (si, voi e un amico) con la vostra barca. Ora la cosa si complica. E’ la prima volta in assoluto che uscite con questo amico ed e’ la prima regata in doppio fatta con la vostra barca ed e’ anche la regata piu’ lunga mai fatta: 230 miglia nel bel mezzo del canale della manica. Chiaramente non avete velleita’ di successo, solo voglia di completare quella che per voi e’ forse la sfida piu’ grande mai affrontata finora: emulare tanti velisti esperti navigando in mezzo alle correnti, alle linee di traffico commerciale, in zone di mare per nulla conosciute e per tempi cosi’ lunghi che non avevate mai sperimentato prima. La fiducia vi guida, la coscienza della pericolosita’ della cosa sopprime l'entusiamo dell'evento.
Vi avvinate alla linea di partenza, vi girate intorno nell’attesa del via, circandati da circa 50 barche. Un bello spettacolo. Poi vi accorgete che la randa, la vela piu’ grande, ha un taglio in mezzo, bello visible. Uno sbrago, una ferita, uno strappo. La testardaggine, la stessa testardaggine che amici e parenti amano ricordare ad ogni occasione, vi permette pero’ di mantenere il sangue freddo, di partire, di ammainare la vela, di ripararala a mano e issarla nuovamente. Felici, vi concentrate nuovamente sulla regata. Immaginate poi che il vento e’ leggero, cosi’ leggero che la corrente vi trascina la barca in mezzo alle secche dei needles (uno dei punti piu’ pericolosi del solent) senza che possiate fare niente, sfiorando di 20 centimetri il fondale con la vostra deriva. Che culo!
Immaginate anche, durante la regata, che la vela continui a rompersi e dovete ripararla un’ altra volta (grazie alla fantasia e senso pratico dell’amico) e arrivate dopo 33 ore di navigazione (cioe’ dopo una notte compelta in mare). Aspettate, non esaltatevi. Non siete arrivati all’arrivo, semplicmeente la faro di Eddystone, che segnala la meta’ del percorso. Ora infatti dovete rifare a ritroso lo stesso percorso.
Immaginate che a quel punto che il motore, finora andato bene, ha deciso di non funzionare e vi lascia cosi’ senza cavalli. E senza possibilita’ di ricaricare le batterie. Poco male, dite. Spegnete tutti gli strumenti e continuate a navigare per altri 2 giorni, in venti leggeri leggeri, cosi’ leggeri che a volte dopo 4 ore non siete avanzati per nulla perche’ nel frattempo la corrente vi ha spinto indietro. In tutto dormite una media di 5 ore a notte, dormite vestiti di tutto punto, al freddo e non vi lavate, ne’ potete comunicare con I vostri cari. Intanto la linea di arrivo si avvicina, siete a 10 / 15 miglia, ma inizia a fare buio, non conoscete la zona dell’arrivo. Non vedete l'ora di finire questa fatica immane. Dalla carta nautica notate che la zona di arrivo e’ piena di fondali bassi, segnalamenti luminosi e che la corrente potrebbe giocarvi brutti scherzi. In quel preciso istante, mentre pensate che forse questo e’ un po’ troppo per voi, stanchi e poco reattivi, inizia ad aumentare il vento in maniera scontante. Non e’ possible! Dopo circa 66 ore e la terza notte fuori non posso fermarmi causa il vento pazzerello che cosi' tanto mi ha fatto soffrire in questi 3 gironi! Devo arrivare. Con mille patemi e ansie riuscite a districarvi tra le difficolta’ e tra le acque basse e riuscite a tagliare la linea del traguardo ma notate che non c’e’ la barca giuria e che la luce gialla lampeggiante che voi pensavate fosse la barca giuria e’ in realta’ un faro che sta a segnalarvi la terra. Immaginate a quel punto che capiate che state esagerando con voi stessi e che forse non e’ il caso di continuare a prendere rischi e navigare in quelle acque pericolose, basse (5 metri di fondale), con corrente, vento rafficato che rende la barca poco governable, il tuto al buio. Decidete allora (saggiamente?) di dare ancora e fermarvi per il resto della notte in rada.
Immaginate che, quando decidete di dare ancora qualcosa va storto (legge di marphy?) e che la catena e l’ancora girano sotto la deriva impediscono alla barca di mettersi prua al vento. Cosa piu’ unica che rara la barca decide invece di mettersi con la poppa al vento, esponendo cosi’ il timone alle onde. E infatti per tutta la notte lo scafo batte contro le onde, tanto che temete che il timone possa rompersi.
Immaginate che, sfiniti dalla notte in bianco passata a verificare che l’ancora abbia tenuto e a pregare chi di dovere di essere clemente, decidiate che non c’e’ piu’ modo di rientrare in porto, ne’ di uscire da questa situazione di empasse visto che non avete il motore. Allora chiamate aiuto.
Imamginate tutto questo.



Tornereste in barca?

28 aprile 2009

Viaggiare

Viaggiamo, inizialmente, per perderci.
E viaggiamo, poi, per ritrovarci.
Viaggiamo per aprirci il cuore e gli occhi,
e per imparare più cose sul mondo
di quante possano accoglierne i nostri giornali.
E viaggiamo per portare quel poco di cui siamo capaci,
nella nostra ignoranza e sapienza,
in varie parti del globo,
le cui ricchezze sono variamente disperse.
E viaggiamo, in sostanza,
per tornare a essere giovani e sciocchi,
per rallentare il tempo ed esserne catturati,
e per innamoraci ancora una volta

(P. Iyer)

3 marzo 2009

The path

Do not go where the path may lead. Go instead where there is no path and leave a trail…

17 febbraio 2009

Il viaggio


Viagiar descanta, ma chi parte mona, torna mona
Hugo Pratt



4 febbraio 2009

Tibetani a Londra

Nel 1950 una delegazione di monaci e funzionari che non erano mai usciti dal Tibet venne inviata a Londra per discutere cosa l’Inghilterra poteva fare per il loro paese. Venivano da un mondo povero, primitivo, ma bellissimo. Erano abiutati a grandi spazi vuoti, a una natura coloratissima e loro stessi erano colorati nelle loro tuniche, nei loro cappotti e berretti. A Londra furono ricevuti con grande cortesia e poratati in giro a vedere la citta’. Un giorno, con i loro accompagnatori, i tibetani si ritrovarono nella metropolitana. Erano esterefatti: tuta quella gente sotto terra! Uomini vestiti di nero, con la bombetta int esta, leggevano il gironale sulle scale mobili, la folla si accalcava nei corridoi correndo per salire sui treni in partenza; nessuno paralva a nessuno, nessuno sorrideva! Il capo dei tibetani si rivolse, pieno di compassione, all’accompagnatore inglese e gli chiese: “Cosa possiamo fare per voi?”