20 aprile 2008

L'unico amico e' il suo piu' spietato nemico!


"Le cose piu' meravigliose sono sempre le piu' inesprimibili, le memorie piu' profonde non producono epitaffi; questo capitolo lungo sei pollici e' la tomba senza pietà di Bulkington. Dico soltanto che accadeva di lui come di una nave squassata dalla tempesta, la quale miseramente avanzi lungo la costa, sottovento. Il porto le darebbe volentieri soccorso; il porto e' pietoso, nel porto c'è sicurezza, comodità, focolare, cibo, coperte calde, amici e tutte le cose care alla nostra vita mortale. Ma in quella bufera il porto, la terra, sono per la nave il rischio piu' temibile. Essa deve fuggire ogni ospitalità; toccare terra una volta, anche soltanto sfiorando la chiglia, significherebbe far rabbrividire la nave da cima a fondo. Con tutta la sua forza essa apre ogni vela per allontanarsi da terra e, cosi' facendo, lotta contro i venti che volentieri la spingerebbero a riva e si getta di nuovo alla ricerca dei mari sconvolti, purchè lontani da terra; per cercare salvezza si precipita disperatamente nel pericolo: l'unico amico è il suo più spietato nemico" Moby Dick, cap XXIII

7 aprile 2008

I marinai


Nel silenzio, punteggiato dallo scricchiolio dei container, appena mossi dall'ondeggiare della nave, mi pareva di capire finalmente i marinai: anche loro erano degli evasi; anche loro scappavano dal mondo di “terra”, dagli impegni sociali, dal peso delle relazioni, dal vivere settimane e mesi in quell’universo costante e continuamente mutevole di acqua e di cielo, per godere della semplice sagoma di un’isola o di un faro che occhieggia nell’oscurità. Bella gente i marinai! Ma anche loro destinati a sparire. Già non si chiamano più così: “marinai”, “mozzi” e “nostromi” sono stati aboliti e al loro posto, per ragioni sindacali, è subentrata una nuova categoria: quella dei ”comuni polivalenti”, gli uomini tuttofare. Succede lo stesso con la sapienza marinara, accumulata attraverso i secoli: il mondo moderno non sa più cosa farsene. Gli strumenti ormai fanno da sé. Un tempo, un marinaio doveva aguzzare lo sguardo per riconoscere, in un certo increspare delle onde, la presenza di un banco di pesci, per vedere da lontano la navigabilità di una rada, o per accorgersi di un fondale basso in cui la nave poteva incagliarsi. Ora tutto questo lavoro e’ affidato ai sonar e ai radar, che ogni anno diventano più precisi. Eppure, quanta conoscenza viene persa! Quante antenne naturali cadono dalla testa dell’uomo per essere rimpiazzate da antenne elettroniche! […] Quella di perdersi nel tempo è una cura semplice per i mali dell’anima, ma nessuno sembra permettersi facilmente. Per anni avevo sognato nei momenti di depressione, di mettere idealmente sulla porta della mia stanza un cartello che dicesse “Sono fuori a pranzo” e poi di far durare quell’assenza giorni o settimane. Finalmente c’ero riuscito. Sulla nave ero costantemente “fuori a pranzo” e avevo tutto il tempo di osservare uno stormo di rondini che dal Mediterraneo era venuto a bordo e che ogni tanto usciva per volteggiare sul mare e tornare a nascondersi fra i container. Avevo il tempo di pensare al tempo, a come il presente spesso mi annoia e debbo immaginarlo nel modo in cui lo ricorderò per poterne godere sul momento. Avevo il tempo di farmi commuovere dall’improvvisa comparsa – chi sa da dove! – di un solitario uccellino grigio con il petto giallo e le ali a strisce nere che s’era posato su una gru vicinissima a me e non smetteva di guardarmi.
“Un indovino mi disse” di Tiziano Terzani

1 aprile 2008

Viaggiare


Quando smetterai di sognare,
non parlarmi.
Quando smetterai di voler bene,
non pensarmi.
Quando la terra del fuego non
scalderà più il tuo cuore,
non guardarmi.
Ma quando tutto questo non si
avverrà, cercami
e in qualche modo
viaggieremo insieme.